Buchi, vetri rotti e sangue: è la Fiat di via Fani

In fondo alla sala, nella sua linea squadrata anni Settanta, sembra una berlina come tutte le altre, disposte a spina di pesce nel salone del Museo del Centro prove autoveicoli, in via di Settebagni. Tuttavia, rispetto alla simpatica Topolino o alla raffinata Isotta Fraschini, quest’auto ha qualcosa di speciale, di sinistro, che si intuisce a distanza. È una Fiat 130, dalla carrozzeria verniciata di un bel blu cobalto; non appena ci si avvicina, un particolare come un pugno allo stomaco: in alto a destra, sul parabrezza, c’è il foro di un proiettile, rotondo, preciso, contornato da una miriade di microscopiche incrinature. Quell’auto è una reliquia della recente storia italiana, una scheggia metallica, dolorosa, infitta nella carne della Capitale. È la macchina da cui, la mattina del 16 marzo 1978, in via Mario Fani, venne scaraventato giù dalle Brigate rosse l’allora presidente della Dc Aldo Moro. Dopo un inferno di spari di armi automatiche, in cui persero la vita i cinque agenti della scorta, Moro venne caricato a forza su un’altra auto che si allontanò rapidamente. Il promotore del compromesso storico fu ritrovato, due mesi dopo, barbaramente trucidato, nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani.
Tutto è rimasto esattamente com’era. Nessun restauro, nessuna pietosa sostituzione delle tappezzerie, neanche uno schermo alla polvere o al tocco dei pur scarsi visitatori. I finestrini sembrano abbassati, ma in realtà non esistono più. La macchina fa rivivere istante per istante quei tragici momenti e consente di capire la dinamica dell’agguato. Il brigatista Franco Bonisoli aveva spianto per giorni la macchina di Moro mentre il politico democristiano ascoltava la Messa in Santa Chiara. Si era accorto che la Fiat 130 non era blindata. Infatti, i vetri laterali esplosero letteralmente sotto quella che i giornali definirono una «geometrica potenza di fuoco». Tutto ciò che rimane dei vetri è un’incrostazione brillante dentro le guarnizioni degli sportelli. Nell’auto prestavano servizio due carabinieri; al posto di guida l’appuntato Domenico Ricci, al suo fianco il carabiniere Oreste Leonardi. I sedili sono macchiati del loro sangue. Dietro sedeva solitamente Aldo Moro. Quel giorno era immerso nella lettura dei suoi appunti; doveva presentare una bozza di governo, il primo con l’appoggio, anche se solo esterno, del Pci. Da quello stesso parabrezza, l’appuntato Ricci vide sbucare improvvisamente in retromarcia, da via Stresa, la Fiat 128 guidata Mario Moretti. La frenata fu così brusca che l’Alfetta di scorta che seguiva con i poliziotti a bordo, tamponò a propria volta la 130. Mentre l’appuntato Ricci tentava di disincagliare l’auto da quella morsa, una tempesta di fuoco si abbatté sugli agenti. In pochi secondi, i tre poliziotti sull’Alfetta di scorta furono abbattuti. I carabinieri Ricci e Leonardi non fecero neanche in tempo a scendere e furono crivellati dai proiettili. Si accasciarono sui sedili anteriori, uno sull’altro. Entrambi avevano moglie e due figli.
Mille cristalli di vetro brillano ancora sul fondo dei tappetini, il cruscotto è coperto di polvere e su di esso sono appoggiate le chiavi, piuttosto ossidate, riunite da un semplice portachiavi di cuoio.

La vista dell’autoradio stride fortemente con i fori bombati nella lamiera della carrozzeria, ben visibili sullo sportello di destra. Il pomello di plastica nera che si trovava in cima alla leva del cambio non c’è più. Forse venne svitato da qualcuno a caccia di souvenir.

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