«Il buon libro? Quello di cui non ci si vergogna»

«Cerco di trasferire nella mia piccola azienda l’esperienza che ho maturato come manager. Il mercato italiano ha bisogno di investimenti»

L uca Garavaglia, che cos’è per lei il libro?
«Una passione. Mai un feticcio».
Il libro è un prodotto come gli altri? Qual è, se c’è, il suo vantaggio rispetto agli altri media?
«Il libro rimane. Il quotidiano, nel momento in cui è in edicola, è morto. La tv è più invasiva, ma si consuma da sola. Al libro, invece, si può ritornare sempre»
Quali caratteristiche deve avere una persona che fa il suo mestiere, ossia l’editore?
«Saper intervenire su tutto in ogni momento, come si farebbe con un figlio».
Quali invece le caratteristiche per un «buon libro»?
«Nel mio caso specifico, io faccio l’editore per proseguire una tradizione e lasciare un’eredità culturale alle mie figlie, quindi fare un buon libro per me significa pubblicare un’opera di cui non dovranno vergognarsi in futuro».
La sua è una casa editrice di stampo fortemente artigianale: qual è il segreto per avere successo sul mercato?
«Il mondo dell’editoria è anche mondo di impresa. Cerco di mettere a frutto le esperienze maturate come manager unendolo a un dna profondamente legato alla cultura milanese».
Che aria si respira nel mercato editoriale italiano?
«Si fanno investimenti a breve per avere risultati a breve».
Un errore dell’editoria italiana?
«L’autoreferenzialità. Non facciamo libri per dimostrare quanto siamo bravi, ma per rischiare, dare ai lettori idee e visioni e poter dire un giorno: “È stato bello“».
Ritiene che Milano sia ancora la capitale dell’editoria?
«Da un punto di vista industriale sì. Da un punto di vista culturale no».
Perché a Milano non esiste un Salone del Libro come quello di Torino o una fiera importante come quella di Francoforte?
«Perché si è perso un orgoglio della milanesità. Prevale l’indole predatoria rispetto alla capacità di progettare il futuro. Una volta Milano era davvero di tutti, purché lavorassero. Non è una visione anacronistica: a New York questo senso di appartenenza c’è anche oggi».
Organizzerebbe a Milano un festival della letteratura come quello di Mantova?
«Ci sarebbe già la Milanesiana…»
Che cosa farebbe per promuovere la lettura nella nostra città?
«I milanesi leggono già abbastanza. Il problema semmai è cosa gli viene offerto, e ancora di più, la possibilità di una identità “milanese“ quale era in passato. Qualche segnale con MiTo c’è stato».
L’evento culturale cittadino irrinunciabile.
«La prima della Scala. Studiando il passato ci si accorge che fino a vent’anni fa la città pulsava per mesi dell’importanza dell’opera presentata al Teatro.
Perché non si investe in cultura come si dovrebbe?
«Impera la paura. Il credersi diversi perché si ha a che fare con la cultura.

Tuttavia non sarei così disfattista: fino a cent’anni fa avevamo l’80 per cento di analfabeti».
Da dove nasce la sua passione per la lettura?
«Dalla tradizione di famiglia. A 14 anni leggevo un bel libro e lo suggerivo. La mia casa editrice è un passaparola di grandi dimensioni».

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