La proposta del ministro Ferrero, di garantire legalmente il diritto ad astenersi dal lavoro per 150 ore l'anno, per svolgere attività di volontariato, può essere analizzata da più punti di vista. Ma, comunque la si guardi, è sbagliata. Da un punto di vista morale, il bello del volontariato è la sua gratuità. È il sacrificio di tempo e denaro a vantaggio di una causa lontana dal nostro interesse immediato. Da questo punto di vista, assegnare un tot di ore annue a ciascun lavoratore, nelle quali egli possa svolgere attività «non for profit» può essere controproducente.
Il senso del volontariato è la sua inutilità ai fini del bilancio di famiglia, è il suo essere «tempo sprecato» se lo guardiamo con gli occhi del nostro commercialista, è il fatto che esso rientra in una contabilità particolarissima, è faccenda fra noi e la nostra coscienza, e non sta a Ferrero né ad altri metterci naso, immaginare detrazioni o sussidi, perché di roba nostra, forse della roba che più è nostra, si tratta.
Un conto è creare un incentivo, un altro è creare una convenienza: e un provvedimento come quello proposto dal ministro alla convention di Napoli rientra nella seconda categoria. Piacerà senz'altro ai caporioni che gestiscono organizzazioni piccole e grandi che utilizzano lavoro volontario. Per loro, vuol dire più manodopera: e manodopera gratis.
Ma non si può assumere che la struttura d'incentivi con cui si confronta il volontario sia la stessa che condiziona le giornate del lavoratore. Ferrero, erede di una scuola per cui il denaro è sterco del demonio e il lavoro schiavitù da cui affrancarsi, sembra pensare proprio questo. Perché il lavoratore non dovrebbe dedicarsi ad un mestiere «socialmente utile», per centocinquanta ore l'anno, se comunque non registra contraccolpi sul suo stipendio?
Solo che il volontario non è un lavoratore che non viene pagato. È persona che svolge un mestiere spesso umiliante, sovente molto faticoso e psicologicamente frustrante (pensate all'assistenza ai malati terminali o ai bambini con patologie gravi), con un entusiasmo che riuscirebbe impensabile in un individuo che svolgesse la stessa mansione per un salario. Egli opera in un settore che non fa profitti, ma personalmente spesso incamera un notevole «profitto psichico», per dirla con il grande economista austriaco Ludwig von Mises: cioè, si sente profondamente e compiutamente bene, nel rendersi utile facendo cose magari sgradevoli, che però intuisce essere importanti «per gli altri» o per «la comunità».
Un impiegato del catasto che possa dedicarsi per un certo numero di ore al lavoro volontario in ospedale non diventa ipso facto un protagonista del terzo settore. E il ministro sbaglia a pensare che le 150 ore basteranno per spingere migliaia di persone in più a dedicarsi al loro prossimo. Questo per un motivo semplice semplice: non siamo tutti «buoni», e neppure siamo tutti «buoni» alla stessa maniera.
Paradossalmente, oggi il valore di ogni singola ora che i volontari dedicano all'associazione cui appartengono è, al margine, molto alto. Non è tempo sottratto a battere a macchina pagine e pagine per un «padrone» magari antipatico, o a spurgare gabinetti. È tempo tolto ai figli, alla famiglia, agli hobby. Tuttavia, il fatto che tale costo sia, soggettivamente, tanto significativo, in realtà è un indicatore importantissimo della motivazione di chi decide di pagarlo. E questa motivazione non è «altro» rispetto al lavoro volontario, perché – per sua stessa natura – quest'ultimo non è un atto ripetitivo, per cui si può tirare una leva con più o con meno entusiasmo. Qui l'entusiasmo è tutto, perché si parla di attività che hanno a che fare con persone meno fortunate, spesso con persone che hanno perso la speranza.
Nessun governo può renderci buoni per legge, mentre può esserci reso più facile essere d'aiuto, di supporto, a chi è buono davvero.
Carlo Stagnaro