Ha parlato dalla Casa Bianca, ma era come se parlasse da un argine. C'era più vuoto psicologicamente attorno a George Bush di quanta acqua si potesse muovere nelle terre basse attorno al Mississippi. Gli spettatori erano gli stessi: gli americani seduti davanti alla tv e i 2000 delegati al Congresso nazionale del partito repubblicano. E davanti a loro il rituale della incoronazione del nuovo candidato alla presidenza si è trasformato in un cerimoniale senza precedenti: un rito di abdicazione.
Il prossimo inquilino della Casa Bianca, lo sappiamo, sarà eletto il 4 novembre ma assumerà il suo ufficio il 20 gennaio. Non solo è sempre così, ma quest'anno la scadenza vien martellata in mille modi, compresi i gadget. Milioni di americani tengono in tasca un portachiavi che porta una data 01.20.09 e una scritta nei tre colori della Star Spangled Flag, il rosso, il bianco e il blu a comporre «Bush's last day», l'ultimo giorno di Bush. Ma nella sala di St. Paul la cerimonia si è consumata in anticipo, breve, apparentemente frettolosa. Al termine del secondo dei quattro giorni della Convenzione si è completato il passaggio dei poteri. Il primo martedì di novembre, l'era di Bush, anzi dei Bush, si è conclusa. Dalle sue ceneri dovrebbe rinascere l'era di John McCain. Né l'uno né l'altro erano presenti, il «nuovo» perché il protocollo non lo consente, il vecchio perché, per decisione propria o più probabilmente concordata, si era autoesiliato nel pezzo d'America flagellato dagli uragani. A rappresentarlo la mamma, sorridente e silenziosa, il papà presidente visibilmente affaticato e la moglie. E Laura Bush è rimasta praticamente sola a parlare del marito, che tutti gli altri oratori, anche i più appassionati, combattivi, hanno cercato o finto di dimenticare. Perfino Thompson, il più «bushista» e il più brillante sul podio; perfino Joe Lieberman, un democratico che ha passato il Rubicone proprio per appoggiare la guerra di Bush in Irak, candidato alla vicepresidenza a fianco di Al Gore contro Bush e Cheney e che ha dedicato meno parole a lui che a Sarah Palin, di cui tutti fino all'altro ieri ignoravano l'esistenza.
Colui che è ancora presidente ha avuto il suo turno da un podio lontano e anch'egli ha parlato poco di se stesso e molto di McCain. In tono dimesso, quasi volesse uscire dal palcoscenico con anticipo, per non distrarre dalla luce dei riflettori il possibile successore. Il meno compatibile con l'uomo della Casa Bianca, diviso per anni da rivalità e dispetti ma emerso come l'unico repubblicano che può vincere nel 2008. Per patriottismo o per lealtà di partito, Bush si è tenuto nell'ombra. Probabilmente amareggiato, si è reso conto che meno McCain si fa vedere assieme a lui più possibilità ha di vincere.
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