Il business di Woodstock? È in bancarotta

Salta il mega-evento per i 40 anni dello storico concerto: il mito degli anni’70 non tira più. Ma discografici e cultori della nostalgia hippie hanno fatto in tempo a diventare milionari

Il business di Woodstock? È in bancarotta

Il meccanismo s’è inceppato sul traguardo più ambìto. Il business di Woodstock e della cultura hippie, che ha fruttato miliardi di dollari, esplode tra le mani degli organizzatori (quelli del 1969) che stavano preparando un Festival celebrativo per il quarantennale dell’evento. Michael Lang e Larry Kornfeld, inventori dello storico evento, raccoglievano fondi per un grande concerto gratuito a Brooklyn a metà agosto. «Mi servono 5 o 10 milioni di dollari e sto coinvolgendo sponsor come Fiat-Chrysler e Volkswagen», disse Lang. Poi la data dello show è slittata di un mese, ufficialmente per festeggiare anche la Settimana del Clima e l’Assemblea Generale dell’Onu. «Voglio un megaconcerto gratuito e verde per salvare il pianeta e promuovere un’economia globale sostenibile», ha dichiarato a Rolling Stone. Tanti paroloni e infine la resa: «Niente soldi, non ci sono gli sponsor», annuncia Michael Lang.

Ci hanno mangiato in tanti in questi anni sul Festival che ha cambiato il mondo e la cultura pop; la festa della controcultura è diventata una gigantesca mangiatoia per chi ha trasformato in «mestiere» il festival di Woodstock (posto magico e tranquillo nelle Catskill Mountains, amato in passato da Thomas Mann, Bolton Brown, John Cage). L’ultimo colpo grosso l’ha fatto Alan Gerry, re della tv via cavo, che dove si tenne la tre giorni di «pace amore e musica», l’anno scorso ha costruito il Bethel Woods Center For the Arts, progetto da 100 milioni di dollari. Gerry ha messo in piedi la Woodstock del nuovo millennio, con un anfiteatro, un megateatro all’aperto e un museo di 3mila metri quadri con produzioni interattive. È solo l’ultimo caso di business sul business di Woodstock, «quel festone che non finiva mai», come titola l’ultimo numero di Rolling Stone e che per qualcuno non è mai finito, almeno fino ad oggi. Lang ad esempio, organizzatore materiale dell’evento, fa il testimonial del festival, ha appena pubblicato il libro Woodstock (Arcana), è stato produttore di Joe Cocker e recidivo organizzatore di altre due Woodstock nel ’94 e nel ’99, professionista della cultura dei figli dei fiori alla faccia di Ginsberg e Kerouac. Dice di non aver guadagnato nulla dal Festival, e di essere stato liquidato con meno di 40mila dollari. Nel libro scrive: «Io e Artie Kornfeld - produttore artistico del Festival - siamo stati costretti a vendere e ad accollarci i debiti». I veri soldi, secondo loro, li hanno fatti Joel Rosenman e John Roberts, giovanotti ricchi che diedero il via all’operazione pubblicando sul Wall Street Journal e sul New York Times il furbesco annuncio: «Giovani con capitale illimitato cercano idee e opportunità da finanziare».

Sarà come dice Kornfeld, ma il film, diretto da Martin Wadleigh con il giovane Scorsese assistente alla regia, nel 1971 ha vinto l’Oscar. Wadleigh, pacifista come un tempo nonostante i 67 anni dice: «Oggi per fare un festival ci vogliono gli sponsor. Woodstock nacque da persone libere e non proprio sane di mente senza alcuna pressione economica o di marketing. Pagai da solo pellicola, attrezzatura, troupe. La Warner arrivò e comprò senza mettere bocca». Wadleigh può esser contento: ha investito 600mila dollari per trovarsene in saccoccia più di 50 milioni. Lang, Roberts e Rosenman, da buoni idealisti o affaristi (scegliete voi) non hanno mollato la loro creatura e, quando ha compiuto 25 anni, l’hanno celebrata con una nuova tre giorni a Saugerties, in mezzo ad un fango degno dell’originale. Ma che differenza dal ’69 quando qui, accanto a Santana e Dylan, c’è una gigantesca postazione della Apple che proietta il quotidiano digitale, «Woodstock Nation News», e si vedevano i cd rom di Woodstock ’69. Non è business questo? Risponde il buon Lang cinque anni dopo: «Lo spirito di Woodstock deve continuare», e via con un nuovo festivalone in una base aerea vicino a New York, con artisti giovani come Limp Bizkit e Metallica. Anche qui l’incasso è garantito e Lang fa il botto diventando il santone dei nuovi hippie, che negli abiti e nello stile di vita (file interminabili di colorati pulmini), ricordano i loro padri spirituali.

Il testimonial di Woodstock è un mestiere lucroso. Il pittoresco Wavy Gracy, definito «figlio illegittimo di Groucho Marx e Madre Teresa», allevatore di maiali la cui comune hippy ha fornito pasti e assistenza al pubblico di Woodstock, è noto come pittore, attore, presentatore tv, affabulatore (racconta di aver studiato a Princeton con Einstein). Anche lui è una star, ed è stato il presentatore ufficiale delle successive edizioni. «Nel primo Woodstock non abbiamo visto una lira, ma gli altri due siamo stati pagati benissimo». Anche personaggi minori, come Elliot Tiber, colui che, trovando un nuovo spazio per il festival (che non si tenne a Woodstock ma 60 miglia più in là) fu chiamato «l’uomo che ha salvato Woodstock», oggi e autore di tv e teatro e scrittore.

E i musicisti? Beh, lì nacquero le nuove star del rock; Santana faceva il lavapiatti, prese mille dollari ma da lì costruì la sua fortuna. Jimi Hendrix ne pretese 12mila, altri come Neil Young non raggiunsero l’accordo economico e non compaiono nè nell’album né nel film. Molti, come il «politico» Country Joe McDonald, rivendicano la loro integrità: «Per molti è stato un affare, ma non per noi. Volevamo dare una scossa al mondo e ci abbiamo provato».

Ma la parola fine sul business non è ancora scritta: «Stiamo pensando - ha detto Rosenman al New York Times - come prendere qualcosa che è stato un faro per la controcultura e la società del 1969 e trasformarla in un evento del nuovo secolo dove i fenomeni arrivano da Internet e non dal vivere».

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