In una busta due inediti di Quasimodo

Prezioso recupero, questo di due frammenti, che ci riportano all’altezza del Quasimodo più appassionato e scoperto, più calato nel vivo, mesto e luttuoso, della storia e della cronaca. A «ritrovarli» (il verbo non è del tutto appropriato) è Gilberto Finzi, curatore del Meridiano che nel 1971 riuniva l’intera opera poetica del nostro penultimo Nobel. È successo che, tra le carte quasimodiane affidategli da tempo, Finzi si sia accorto di una busta - capitatagli già in mano chissà quante altre volte - su cui il poeta aveva tracciato a matita alcuni versi.
Li ha pubblicati adesso La Provincia, quotidiano comasco, e a Como ne ha parlato giovedì scorso Vincenzo Guarracino. Da questi abbozzi si dirameranno e prenderanno corpo due liriche distinte: oltre a Milano, agosto 1943 (stabilmente e con merito accolta nella maggior parte delle antologie novecentesche), Lettera, inserita nella raccolta edita nel 1947 come Giorno dopo giorno ma anticipata l’anno avanti come Con il piede straniero sopra il cuore. Testo quanto mai celebre, dove il «lamento» e «l’urlo» (l’«urlo nero» della madre) potrebbero derivare dal secondo frammento oggi rivelato, che offre tale e quale «il lamento» ma anche «il grido» (e allora il secondo abbozzo sarebbe alla radice non di due ma addirittura di tre liriche di Giorno dopo giorno...).
La fama arrisa all’immagine dell’«usignolo» avvezzo a cantare dall’alto di un’antenna e precipitato poi a terra dal bombardamento, è già quasi completa nel primo dei due abbozzi: le manca solo quella sorta di precisazione-consacrazione conferita nella stesura definitiva dal «convento», laddove il secondo abbozzo, ha una «casa lontana», come ad alleggerire sulla scena il peso di quel soggetto canterino. Più significativo, nel passaggio da una redazione all’altra, il mutamento da descrizione a esortazione: se prima «nei cortili» c’è chi scava i pozzi per fronteggiare quella che oggi si chiamerebbe emergenza idrica, la stesura definitiva enfaticamente dissuade da una fatica simile, affermatosi un regime di rassegnazione assoluta che il verso finale suggella asserendo che a morire non sono stati alcuni o molti cittadini ma l’intera città (il titolo provvisorio la siglava: Mi).
Più ampio e coinvolgente, direi, l’accennato legame di filiazione dal secondo abbozzo (titolo cancellato: Ricordi) anche di Lettera, molto meno celebre della lirica milanese di cui sopra. Il suo avvio («Questo silenzio fermo nelle strade,/questo vento indolente che ora scivola...») è il medesimo registrato nell’abbozzo, dove fra l’altro una «foglia» poi cassata potrebbe preludere alle «foglie morte» di Lettera, che ha invece «muri morti»... Insomma, Quasimodo attingerà ad un’unica pagina, ad un unico serbatoio, per svolgere al momento opportuno due (o almeno due) temi e composizioni ben distinguibili fra loro, anche nei toni.

E semmai può colpire che il motivo dell’usignolo caduto, ammutolito, spodestato si ponesse, in prima invenzione, fra i «ricordi», mentre più tardi avrà la forza di un evento attuale, poco meno di un instant-poem.
Che altro? L’augurio, che altre buste vengano a tiro di Finzi, altri dati del laboratorio di un poeta che, in quella stagione, cercò di dar voce a un dolore corale e talvolta riuscì nel suo ambizioso intento.

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