Nel 2004 fu il primo ministro a dimettersi quando Damasco impose una proroga di tre anni al mandato del presidente Emile Lahoud. Fu il primo a subirne le conseguenze quando il 1° ottobre 2004 unautobomba gli esplose accanto. Quella volta il sopravvissuto Marwan Hamadeh, oggi 67enne ministro delle Telecomunicazioni nellesecutivo di Fouad Siniora, fece ununica promessa: «Dedicherò il resto della mia vita a far luce sui crimini che hanno colpito il popolo libanese». Oggi la tempra è la stessa. Cinque giorni fa il parlamentare anti siriano Antoine Ghanem è stato dilaniato da unautobomba. Ieri la maggioranza di governo ha dovuto accettare il ricatto dei gruppi filo siriani, rimandare la convocazione del Parlamento e il voto per lelezione del successore di Emile Lahoud. Ma Hamadeh non demorde, non si rassegna.
«Stiamo trattando con Nabih Berri la convocazione del Parlamento - garantisce in questa intervista telefonica al Giornale -, se non lo convocherà lui dovrà farlo il suo vice. La Costituzione parla chiaro, negli ultimi dieci giorni della presidenza il Parlamento deve venir convocato per forza. Berri alla fine dovrà raggiungere un accordo con noi».
E se rifiuta?
«Non preoccupatevi. Non lasceremo il Libano senza presidente. Dimostreremo che nonostante la chiusura del Parlamento la maggioranza è ancora nelle nostre mani. Al secondo voto, come prescritto dalla Costituzione, ci basterà la semplice maggioranza per far eleggere un nostro candidato».
Per lopposizione avrete comunque bisogno dei due terzi dei deputati per convocare lassemblea
«Questa è linterpretazione della Siria. Se dobbiamo scegliere tra un nuovo presidente imposto o appoggiato dalla Siria e il rischio di convocare ugualmente il Parlamento e arrivare in ogni caso al voto scegliamo di rischiare».
È una sfida...
«Se si ha paura non si va da nessuna parte. Se vogliamo continuare la battaglia iniziata buttando fuori i siriani dal Libano dobbiamo rassegnarci alla nostra condizione. Io e i miei colleghi della maggioranza non viviamo da ministri o politici, ma da clandestini. Siamo consapevoli di sopravvivere in una condizione precaria e di totale rischio. Davanti alla sofisticata macchina del terrore manovrata da Damasco non esistono protezioni o certezze, ma non abbiamo scelta, cedere adesso significa rinunciare a tutto».
A cosa puntano le bombe?
«Ci sono un gioco politico e uno squisitamente aritmetico. Politicamente Damasco punta a terrorizzare la maggioranza, farci accettare le condizioni dei suoi alleati libanesi. Aritmeticamente punta ad assottigliare la maggioranza. I siriani sono decisi a imporci un accordo per lelezione di un presidente a loro gradito».
Il presidente Lahoud minaccia di mandare a casa il governo e sostituirlo con uno provvisorio guidato dal capo di stato maggiore Michel Suleiman...
«Il generale Suleiman ha già fatto sapere di non essere disposto a interpretare questo ruolo. La Costituzione non permette al presidente di sciogliere il governo e il premier Fouad Siniora ha una maggioranza solida. Un governo provvisorio nominato da Lahoud sarebbe un governo fantoccio senza alcun seguito. Solo Siria e Iran potrebbero riconoscerlo».
Non potreste accordarvi sul generale Suleiman?
«Abbiamo presentato tre candidati di spicco, parlamentari di esperienza, politici il cui nome non è mai stato associato a episodi di estremismo o violenza, sono i candidati migliori per una elezione democratica e speriamo che uno di loro venga accettato anche dallopposizione. E per trasformare il generale Suleiman da capo di stato maggiore in presidente è prima necessario un emendamento costituzionale».
Teme una nuova guerra civile?
«Negli ultimi mesi ci sono state mille occasioni per tornare ai vecchi tempi, ma i libanesi hanno dimostrato di non voler rivivere gli orrori del passato, i tentativi di Damasco sono condannati al fallimento».
La presenza dei soldati italiani e degli altri caschi blu è una garanzia?
«Hanno un ruolo importante come cuscinetto tra Hezbollah e Israele, ma sono assai lontani dal realizzare tutti gli obbiettivi.
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