«C’è una sentenza sbagliata E nessuno la può applicare»

L’ultimo calvario di Eluana è colpa di un autogol. «In questi giorni si accusa la politica, ma sono i giudici della Corte d’Appello di Milano che hanno creato questo vicolo cieco, per cui nessuna struttura pubblica accetta di eseguire la sentenza». Paolo Becchi insegna Filosofia del diritto all’università di Genova. Secondo lui il destino di Eluana è stato scritto dai magistrati e sarebbero loro ad aver scritto anche perché non si può compiere.
Che colpa avrebbero i giudici?
«Il problema è la sentenza della Corte d’appello di Milano del luglio scorso. Lì i giudici hanno deciso che l’interruzione del trattamento di alimentazione e idratazione artificiale dovesse avvenire in un hospice o in un altro luogo di ricovero adeguato. Non si parla di ospedale, non si parla del domicilio di Eluana».
Perché non si nomina l’ospedale?
«È chiaro: perché una persona va in ospedale per curarsi, non per morire. E allora la sentenza parla dell’hospice. Ma, anche in questo caso, non funziona: l’hospice è una struttura che garantisce le cure palliative ai malati terminali. Li accompagna verso una fine dignitosa della loro vita, senza che sia accorciata o allungata in alcun modo».
Quindi non è la struttura adatta?
«Esatto. L’hospice accoglie i malati terminali, ne salvaguarda la dignità: non è un luogo per far morire una persona di fame e di sete. Il suo ruolo sarebbe snaturato, così come quello di un ospedale».
Allora non esiste una struttura adatta?
«No».
E non esiste una soluzione?
«Certo. Bastava che la Corte acconsentisse che il papà di Eluana potesse portarla a casa ed eseguire la sentenza privatamente».
Perché non avrebbero accennato a questa possibilità?
«Per ideologia. Perché ormai la tragedia di Eluana è uno spettacolo, e anche la sua morte deve avvenire sotto i riflettori. I giudici hanno detto: non solo autorizziamo la sospensione del trattamento, deve anche avvenire in una struttura pubblica. Ma è stato un autogol».
Eluana non potrebbe essere portata a casa?
«Probabilmente sì, ma ormai la sua morte è utilizzata a fini politici. Quindi è spettacolarizzata. È un vicolo cieco, ma la colpa è dei giudici».
Come pensa che finirà?
«Un ospedale dirà di sì. Fra l’altro è lecito, la Cassazione l’autorizza. Però, a quel punto, quell’ospedale snaturerà la sua stessa funzione. È come se a un medico si accordasse il permesso di uccidere dieci pazienti: non può farlo, è contro la sua deontologia. Così un hospice, anche se è indicato nella sentenza, non può accogliere Eluana. Che oltretutto non è nemmeno un malato terminale: è così da 17 anni».
Come definirebbe la sua condizione?
«Il suo è uno stato vegetativo persistente, che alcuni definiscono “permanente” perché escludono la possibilità che, dopo tanti anni, possa tornare a una vita cosciente. Un punto su cui non c’è certezza. Ma il problema delle sue condizioni cliniche è più ampio. C’è un rischio: è quello che qualcuno, a un certo punto, dica che la morte cerebrale corticale, e non più totale, sia sufficiente per decretare la morte del paziente».
È possibile?
«È un rischio. Eluana vive senza respiratore, un morto cerebrale no; ma è l’unica differenza fra i due.

Per il resto, il corpo funziona uguale. Se si allargano i criteri della morte cerebrale, come qualcuno ha ventilato ultimamente, allora il caso Englaro è risolto. Basta dire: Eluana è un cadavere, è già morta, e il problema non esiste più».

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