Controstorie

C'è lo zampino tricolore dietro i trionfi nel futbol

Cinque ragazzi liguri fecero nascere il club di Baires. E in Brasile successo dei «piemontesi»

Paolo Manzo

San Paolo

È l'anno dell'Italia che trionfa nel calcio sudamericano, in Brasile e in Argentina, ma pochi se ne sono accorti. Anzi, a voler essere un po' leghisti vecchio stampo, alla Bossi per intenderci, a dominare il gotha del calcio samba e di quello del Rio de la Plata oggi è il Nord-Ovest del Bel paese, ovvero Piemonte e Liguria. Già perché se Palmeiras e Boca Juniors - i campioni in carica di Brasileirão e Primera División esistono, lo si deve agli emigranti di queste due regioni che oltre un secolo fa raggiunsero quel Sudamerica così ben descritto dall'eterno Paolo Conte nella sua omonima canzone.

I primi ad andarsene furono i liguri, impareggiabili lupi di mare, e lo fecero inizialmente per motivi soprattutto politici. Dopo il Congresso di Vienna del 1815 che aveva assegnato la Repubblica di Genova ai Savoia infatti, piuttosto che consegnare la loro flotta all'«odiata» Torino, molti scelsero il Rio de la Plata. A dare ulteriore impulso a questa emigrazione fu il caudillo che dal 1829 al 1852 plasmò la storia argentina, Juan Manuel de Rosas, che approfittandosi dei liguri rafforzò la marina del suo paese, sino ad allora quasi inesistente. Fu in quegli anni che i genovesi fondarono il quartiere della Boca - all'epoca una copia impoverita dei «caruggi» di Zena mentre oggi è un gioiello da non perdere se si visita Baires - da cui trasse poi il nome la squadra di calcio amata da Maradona.

Farenga Antonio, Farenga Teodoro, Scarpatti Alfredo, Sana Santiago e Baglietto Miguel detto Michele. Questi i nomi dei «magnifici cinque» che il 3 aprile del 1905 fondarono il Boca Juniors, dopo giornate passate a discutere sul nome da scegliere. «Hijos de Italia» - che sarebbe Figli d'Italia nella lingua di Dante disse uno. «No, tu sei matto rispose alzando la voce un altro, avanzando l'ipotesi che una volta in campo i tifosi avversari li potessero ribattezzare con il più classico degli hijos de puta, insulto che già all'epoca andava per la maggiore in Argentina - meglio Estrellas de Italia!». Ma anche il nome Stelle d'Italia venne messo da parte e la discussione trascese a tal punto che la madre di Baglietto, nella casa del quale i giovani si erano riuniti, li mise amabilmente alla porta. Era una domenica e i Baglietto - originari di Genova e che in Argentina gestivano uno dei cantieri navali più rinomati dell'epoca oltre ad avere fondato il corpo volontario dei pompieri della Boca - avevano ospiti importanti in casa. Per questo l'atto di nascita che sancì finalmente il nome Boca - a cui s'aggiunse Juniors per l'aura che già all'epoca circondava ogni cosa arrivasse dal mondo anglosassone - fu sottoscritto il giorno dopo in plaza Solís, ubicata tra le vie portegne di Olavarría, Suárez, Gaboto e Ministro Brin, su di un'umilissima panchina. Era un lunedì come tanti altri a Buenos Aires ma, inconsapevolmente, quei giovani ragazzi d'età compresa tra i 17 ed i 23 anni, avevano appena fatto la storia del calcio, dando vita alla squadra che oggi contende a Real Madrid e Milan il titolo di club più vincente del mondo.

Altri tempi, se è vero che la prima sede ufficiale del club fu la casa dell'ebanista Francesco Paolo Farenga, padre di Antonio e Teodoro, nato nel 1851 a Muro Lucano, in provincia di Potenza e che, una volta in Argentina, si era sposato con Lidia Valega di Finalmarina, in provincia di Savona, che oggi si chiama Finale Ligure. Soldi ce n'erano pochi e, allora, le prime maglie del Boca Juniors le cuciva a mano Marina Farenga, sorella dei due fondatori di famiglia, ma erano bianche con strisce nere verticali. Il classico colore azzurro-oro in dotazione ancora oggi arriverà infatti solo nel 1907, quando non sapendo che maglia scegliere e dopo estenuanti discussioni, i «magnifici cinque» videro entrare al porto di Buenos Aires un'imbarcazione che batteva bandiera svedese. Fu un colpo di fulmine - questo almeno narra la leggenda - e il problema del colore risolto.

Ancora oggi, del resto, le origini sono evidenti per almeno tre motivi. Il soprannome dato alla squadra - xeneizes, dall'originario zeneize che in dialetto ligure significa genovese - il sito web ufficiale del Boca (www.bocajuniors.com.ar) che oltre a spagnolo, italiano e inglese mette anche il genovés tra le lingue di navigazione Web e il Pedrín el fainero, ovvero la mascotte simbolo, stereotipo dell'immigrato italiano d'inizio Novecento.

I piemontesi arrivarono dopo in Sudamerica e lo fecero soprattutto per motivi economici perché la piccola proprietà agricola su cui si basava la società nella provincia «granda», quella di Cuneo, non era più sostenibile a causa del brusco calo della mortalità infantile legato ai progressi medici. Una piccola proprietà che sino ad allora era servita alla sussistenza familiare non bastava più ed ecco che, allora, a partire erano i figli «di troppo» che sognavano di «fare la Merica», per dirla alla piemontese. Il Brasile fu con l'Argentina una delle mete più gettonate, come dimostra il bel Museo dell'immigrato di San Paolo. Soprattutto dopo il 1888, quando nel gigante sudamericano si abolì la schiavitù e, per sostituire i neri nelle piantagioni di caffè, la manodopera preferita dai governi dell'epoca - che con Roma stipularono anche accordi ad hoc - era proprio quella italiana.

Certo non è un caso se il Palmeiras fu fondato il 26 agosto del 1914, in seguito all'entusiasmo suscitato dalla prima tournée in Brasile di due squadre piemontesi, il Torino guidato da un giovanissimo Vittorio Pozzo - che avrebbe poi regalato da ct due mondiali all'Italia - e la Pro Vercelli, che all'epoca dominava la serie A. Ma non si chiamava così bensì Palestra Italia.

Fu solo con l'entrata del Brasile nella seconda guerra contro il nazifascismo - il 13 settembre del 1942 - che venne adottato il nome Palmeiras anche se, per sottolineare la sua italianità, il club campione in carica brasiliano, ha rispolverato nell'anno del centenario lo scudo dei Savoia sulla sua maglia ufficiale.

Le origini, insomma, non si dimenticano mai.

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