La caccia all’automobilista fa male all’industria italiana

Di questi tempi, il vecchio proverbio «Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca» è applicabile a molte situazioni. La sua ultima versione riguarda il mondo dell’automobile e può essere formulata così: «È possibile avere un’industria automobilistica trainante, che con l’indotto occupa decine di milioni di persone e contribuisce non poco al Pil dei Paesi produttori, e nello stesso tempo muovere una guerra spietata all’automobile, sotto forma di divieti, pedaggi e balzelli vari, che inevitabilmente finiranno con lo scoraggiarne prima l’uso, e in seconda battuta l’acquisto?».
In questo momento al centro del dibattito c’è il progetto di Letizia Moratti di introdurre la cosiddetta pollution charge per limitare l’accesso delle autovetture nel centro di Milano: un progetto controverso, osteggiato da una parte rilevante della popolazione e che anche tra i politici incontra un’opposizione trasversale. Ma misure simili sono già in vigore in numerose grandi città e stanno per essere applicate in molte altre, tra cui New York, Stoccolma e - sia pure solo in vista delle Olimpiadi - perfino Pechino.
Il caso cui si fa più spesso riferimento è quello di Londra, dove le restrizioni esistono ormai da quattro anni, con risultati apparentemente positivi: 70mila auto al giorno in meno in circolazione nel centro, tempi di viaggio diminuiti del 14%, polveri sottili calate - a seconda dei giorni - del 10-20%, 80 milioni di euro incassati ogni anno e destinati allo sviluppo del trasporto pubblico. Ma c’è anche il rovescio della medaglia: molti londinesi hanno deciso di tenere l’auto in garage se non per andarsene in weekend, e gli altri che in weekend non ci vanno se la sono venduta. La «densità automobilistica» della capitale britannica ha cominciato, sia pure molto gradualmente, a calare. Il fenomeno si ripeterà inevitabilmente ovunque le limitazioni all’uso della macchina si faranno più severe, o usarla diventerà troppo costoso. Fino a quando esso sarà circoscritto ad alcune decine di metropoli, le vendite globali non ne risentiranno troppo. Ma se, a causa della paura dell’inquinamento atmosferico e delle misure sempre più restrittive del codice stradale, la guerra all’automobile dovesse estendersi ulteriormente, trasformandosi in una specie di caccia all’untore, l’avvenire dell’industria si farebbe assai incerto.
In Italia, dove ci sono 592 vetture per ogni mille abitanti, e più automobili per chilometro di strada che in qualsiasi altro Paese europeo, questa inversione di tendenza potrebbe essere vista (salvo che, naturalmente, dalla Fiat) come una benedizione. Si può anche sostenere che un calo delle vendite nei Paesi sviluppati, dovuto a un minor uso chilometrico e quindi a una minore necessità di ricambio, sarà presto compensato dal rapido sviluppo di nuovi e giganteschi mercati, come la Cina, l’India, il Brasile, dove per ora l’automobile non è ancora un nemico, ma un obbiettivo da raggiungere. Ma questi Paesi stanno puntando a una specie di autarchia, nel senso che si stanno dotando a spron battuto di industrie proprie, capaci oltretutto di produrre a costi inferiori.


Perciò, prima di applicare ovunque il «modello Londra», riflettiamoci bene: mettiamo su un piatto della bilancia i vantaggi per l’inquinamento e sull’altro le probabili conseguenze per un settore molto importante della nostra industria, e cerchiamo di trovare un accettabile punto di equilibrio.

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