L'equilibrio da ritrovare

Non sarà solo un test sul merito della riforma ma anche sul rapporto politica-magistratura e sul governo Meloni

L'equilibrio da ritrovare
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Quando, la primavera prossima, voteremo al referendum sulla riforma costituzionale della giustizia che ha appena completato il suo iter parlamentare, ci troveremo a dare tre voti in uno. Il primo sarà sul merito della riforma. Il secondo sul rapporto fra politica e magistratura. Il terzo, purtroppo ma inevitabilmente, sarà un voto politico pro o contro il governo Meloni. Ciascun elettore dovrà innanzitutto decidere quale peso dare a questi tre elementi. E soltanto dopo, in base alle proporzioni fra un elemento e l'altro, potrà scegliere fra il sì e il no. La compresenza di tre ordini di questioni rende il referendum particolarmente complesso e il suo risultato più imprevedibile del solito. Più ancora di quello del 2016, che di scelte ne includeva soltanto due, sul merito della riforma e su Matteo Renzi.

Il mio voto, per quel che vale, si baserà soprattutto sul secondo criterio: il rapporto fra istituzioni rappresentative e ordinamento giudiziario. Sarà un sì, sarà uno dei voti più convinti che io abbia mai dato nella mia vita di elettore e sarà motivato dal principio liberale del bilanciamento dei poteri. In Italia i poteri sono sbilanciati da decenni, e lo sono a vantaggio della magistratura. Questa riforma non la punisce né porta le Procure sotto il controllo dell'esecutivo, ma riconduce di per sé l'assetto istituzionale a un maggior equilibrio.

Chi avversa la riforma afferma che, dopo questo primo passo, la politica cercherà poi di espandersi in maniera indebita squilibrando le istituzioni dall'altra parte. È il desiderio di pieni poteri che animerebbe il governo Meloni. E va bene: se e quando il pericolo reale e imminente sarà questo, lo affronteremo. Ma non possiamo rinunciare oggi a correggere un eccesso presente, pernicioso e grave, perché temiamo di cadere domani in un contro-eccesso ipotetico. Ogni giorno ha la sua pena e la nostra pena odierna, della quale soffriamo non da ieri ma da trent'anni, è l'eccedere del potere giudiziario dai limiti della fisiologia liberale.

Gli ultimi decenni ci hanno fornito infinite dimostrazioni di questo eccedere. Che non è certo un fenomeno soltanto italiano, per altro. Qui mi limiterò a notare come l'amministrazione della giustizia si sia venuta progressivamente emancipando da ogni meccanismo di valutazione e controllo. E non mi riferisco soltanto ai meccanismi esterni all'ordinamento giudiziario ma pure a quelli interni, ossia alla capacità di quell'ordinamento di governarsi da sé. Nel corso della vicenda repubblicana il singolo magistrato si è sempre più autonomizzato non soltanto dal potere esecutivo ma anche dagli altri magistrati, come mostra assai bene Ermes Antonucci nel suo La Repubblica giudiziaria.

Ma si obietterà il magistrato è soggetto alla legge, e tanto basta. Pur essendo tutt'altro che inconsistente, quest'obiezione è insufficiente. Se non altro perché negli ultimi trent'anni tanti, troppi magistrati italiani, oltre agli organismi di rappresentanza della magistratura, hanno cercato in maniera insistente e ripetuta di condizionare la scrittura delle leggi e il clima storico entro il quale venivano interpretate. Si sono rivolti direttamente all'opinione pubblica sui giornali e in televisione. Sono entrati in politica. Hanno fatto pressione su partiti e Parlamento. E oggi, infine, si schierano apertamente in un referendum che li riguarda. Il cortocircuito è evidente: se una magistratura che trova nella legge il suo unico limite si trasforma in soggetto politico così da poter controllare pure quel limite, allora sì, possiamo parlare di pieni poteri.

Anche i magistrati sono cittadini, ovvio, e hanno diritto a partecipare alla vita pubblica. Ma i diritti possono essere esercitati in maniera più o meno rispettosa degli equilibri delicati di una democrazia liberale. E negli ultimi trent'anni la magistratura italiana ha fornito innumerevoli esempi della propria scarsa moderazione. Si è giovata del privilegio dell'autonomia ma come corpo, e malgrado la buona volontà di tanti suoi esponenti non ha voluto pagare il prezzo di disciplina, responsabilità e autocontrollo che quel privilegio porta con sé. E se n'è accorta anche l'opinione pubblica, la cui fiducia nell'ordinamento giudiziario negli ultimi anni si è molto indebolita.

Una magistratura capace di farsi carico delle istituzioni repubblicane nel loro complesso, piuttosto che concentrata sulla difesa dei propri poteri e privilegi, avrebbe trasformato questa riforma in un'occasione per ripensarsi e affrontare i propri mille problemi interni. Ma se la magistratura ne fosse stata capace, non avremmo avuto bisogno della riforma.

Un'opposizione meno faziosa avrebbe compreso che la ricostruzione di un equilibrio fisiologico fra politica e giustizia conviene non soltanto a chi governa oggi ma anche a chi aspira a governare domani. Ma se l'opposizione lo avesse compreso, avremmo avuto un'opposizione.

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