Caccia al colpevole alla faccia della libertà

In attesa che il suk sulla «acquisizione» di qualche seggio consenta a Prodi di tirare a campare per un altro po’, non si può trascurare quello che è successo nei giorni scorsi. Dopo il voto al Senato che ha aperto la crisi del governo, si è steso sul Parlamento un clima pesante, che non ha molti precedenti. È nata una sorta di caccia al colpevole, quasiché i singoli autori di quel voto, liberamente espresso, dovessero rendere conto delle loro ragioni, buone o cattive che fossero.
Sulle ragioni del voto di Andreotti, per esempio, si è discusso e si discute. Sul suo autore è tornata a circolare l’antica leggenda del Belzebù della politica italiana. Una leggenda che ha condannato Andreotti a trascorrere dieci anni della sua vita quale imputato del delitto di mafia, prima di veder riconosciuta la sua innocenza. Andreotti ha tentato di cavarsela con una battuta: «Non avrei mai pensato di provocare il naufragio della nave». In effetti Andreotti si è limitato a disporre del suo voto come del resto hanno fatto altri. Ma questa spiegazione non gli basterà ad allontanare da sé il ritorno alla leggenda del Belzebù. Qualcuno ha individuato in lui la presenza di uno dei poteri forti tirati in ballo in questi giorni, il Vaticano, per la questione delle coppie di fatto. Non so se questa ragione abbia pesato sul voto, ma non troverei da eccepire se fra le ragioni ci fosse la preoccupazione di un cattolico turbato per una questione che tocca da vicino la famiglia, e il ruolo che la Chiesa assegna, nella società, a un problema di questa natura. Resta inammissibile, invece, che ad Andreotti sia stato chiesto, in modo diretto o in termini inquisitori, di rendere ragione di un gesto che riguarda solo lui, e il mandato del quale egli dispone.
Insieme ad Andreotti, la mannaia della damnatio memoriae è calata sui due comunisti Rossi e Turigliatto, accusati in piena aula e nei giorni seguenti di tradimento, espressione del linguaggio staliniano tornata in onore nel Parlamento repubblicano. Eppure, i due senatori avevano spiegato le loro ragioni, ancorché pessime, con la volontà di tener fede agli slogan urlati qualche giorno prima a Vicenza, ove erano presenti insieme agli accusatori di oggi. Uno dei due è stato aggredito fisicamente su un treno che lo riportava a casa dopo il voto, un gesto squadristico sul quale tante anime belle presenti sui nostri giornali non hanno trovato nulla da ridire.
Non se l’è cavata neppure l'incolpevole senatore Pininfarina aggredito, solo verbalmente questa volta, da un personaggio singolare. Qui l’accusa è stata sostenuta da Valerio Zanone, già segretario del Partito Liberale, il partito di Benedetto Croce, di Leone Cattani, di Carandini, di Malagodi, passato negli ultimi anni a sinistra. E con quale sinistra, poi.
Del tutto curioso, disciamo dalemianamente, e un po’ oscuro, il dibattito che ha finito per coinvolgere Massimo D’Alema. Il suo discorso è stato definito da tutti, anche al di là del vero, come alto, altissimo, coraggioso. E però e per questo, da taluno, imprudente quanto meno. Quell’avvertimento rivolto ai senatori della sua parte, o c’è una maggioranza o ce ne andiamo a casa, ha scatenato commenti, ma anche qualche sospetto sulle intenzioni recondite, che Dio sa quali potevano essere visto che l’infortunio ha coinvolto direttamente il ministro. Eppure. In un fondo del Corriere, dopo due colonne fitte di elogi sul coraggio dell’uomo, sulla sua qualità di statista, si potevano leggere giorni fa, alle ultime righe, queste parole: «Il minimo che si può chiedere a D’Alema è una parola, un gesto, veda lui, che non dissipi la lezione di serietà, di impegno e di coerenza offerti al Paese nelle settimane passate». Parole oscure, proprie di un giornalismo trasversale che di tanto in tanto fa capolino anche nelle migliori famiglie.
a.

gismondi@tin.it

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