Cosa accadde a Genova nelle giornate successive al 25 luglio 1943? La sera del 25 la notizia fa il giro del mondo: il fascismo è caduto. Mussolini è stato destituito, arrestato e sostituito al governo dal Maresciallo Badoglio. Il Partito nazionale fascista è al completo collasso, e si scioglie senza quasi reagire. I Carabinieri mettono agli arresti i principali elementi fascisti, mentre altri sono allontanati dai posti di lavoro, altri ancora richiamati alle armi e - in special modo gli ufficiali - inviati a prestare servizio presso reparti militari isolati, nei Balcani o lungo le coste meridionali. Si assiste, soprattutto dal giorno 26, a un' ondata di dimostrazioni antifasciste, tollerate dalle nuove autorità. Non sarà, in ogni caso, un passaggio incruento, una «festa paesana», come si tenta di raccontare nella storiografia di ispirazione marxista, ma un evento tragico e complesso che provocò morti e feriti da ambo le parti.
La exit-strategy italiana del 1943 fu giocata sulla pelle del popolo italiano, con conseguenze che si riveleranno terribili, quando la nazione verrà invasa e sprofondata nel vortice della guerra civile. In quelle ore vanno a fuoco, a Genova come altrove, le «Case del fascio», i «Gruppi rionali», le sedi fasciste, ma anche le abitazioni di ricchi gerarchi e di poveri diavoli.
Appaiono scritte spontanee sui muri della città, nelle fabbriche, nelle scuole. Si bruciano libri, documenti, divise. Naturalmente vanno in fumo le immagini del Duce che erano obbligatorie in ogni ufficio, accanto a quella del Re, e al crocifisso che restano - per ora - al loro posto. Viene di moda, a babbo morto, chiamare il distintivo fascista «cimice», dopo averlo indossato per conformismo, giorno e notte, all' occhiello della giacca. Si dice che la vasca di piazza De Ferrari luccicasse di questi distintivi, ma è una grossolana leggenda metropolitana. Certo, la gente istintivamente festeggiò più che altro la fine - che si credeva imminente - della sanguinosa guerra mondiale, che voleva dire la fine dei bombardamenti, della fame, della paura, dei disagi, dei lutti. Altrettanto certo che in molti casi si siano verificati dei regolamenti di conti con qualche elemento fascista particolarmente inviso, con squadristi che avevano partecipato a pestaggi e soprusi, con esponenti piccoli o grandi di un regime che, dopo aver goduto di innegabili fortune, era ormai agonizzante, schiacciato da un conflitto che aveva cercato e perso.
Ma è altrettanto vero che ci furono, oltre a legittime dimostrazioni di giubilo, molti episodi di turbamento dell'ordine pubblico, di becera violenza, di stupido teppismo.
Il governo Badoglio, che era pur sempre un militare, emanò drastiche misure tese a reprimere sul nascere ogni tentativo sedizioso, per mezzo della famosa «circolare Roatta», dal nome del generale che firmò il documento diffuso tra tutti i reparti militari. Fra le norme, era previsto di aprire il fuoco indiscriminatamente contro quei civili che avessero dato vita a manifestazioni ritenute eversive, contro vandali e saccheggiatori. Rigidissima fu l' applicazione del coprifuoco notturno e in alcuni casi, come vedremo, il fuoco delle truppe sabaude fece alcune vittime, in varie località cittadine. Ma intanto possiamo ricordare alcuni degli episodi salienti e emblematici che caratterizzarono quei giorni genovesi di fine luglio 1943.
A Pontedecimo, il giorno 26, una piccola folla di facinorosi devasta la sede del Gruppo rionale «Poletti» ospitata nell' edificio comunale di via Guido Poli. Viene distrutto il busto che ritraeva il calciatore Grondona, caduto durante la guerra d' Africa. Gli stessi elementi si accaniscono contro l' abitazione del dottor Bologna, un ottimo medico che non faceva mai pagare le prestazioni alle persone indigenti. Approfittando dell'assenza del Bologna, che si trovava al fronte, richiamato in servizio, i teppisti gli incendiano l' automobile, in via Casone, e gli distruggono lo studio, nei pressi della Stazione ferroviaria. Va in frantumi una costosa attrezzatura radiologica tedesca e si trova molto divertente scaraventare dalla finestra un pianoforte. C' è ancora chi ricorda il suono prodotto dal tonfo dello strumento, come chi ha ancora negli occhi la carcassa incenerita dell' automobile. Si distinguono in queste bravate alcuni noti malviventi della zona. Molti altri cittadini subiranno aggressioni e il saccheggio di abitazioni e esercizi commerciali. L' anziano milite della Controaerea, Carlo Repetto, detto «Gamba» per via di una grave mutilazione che lo affliggeva, viene strattonato e scaraventato da una vettura tramviaria in località «Cima della villa».
A San Quirico vengono «visitate» le case dei Migliorini, dei Lagostena, dei Montanari, dei Ghelardelli, dei Gasparini, dei Molinari, tutte famiglie del popolo, ma schierate con il fascio, mentre una folla ubriaca saccheggia il magazzino viveri Gherardi, spargendo in terra vino, farina e persino il preziosissimo olio. C'è chi fa il tiro a segno con i ritratti del Duce presi nelle scuole. I militari della Divisione «Piacenza» e i pochi Carabinieri presenti in zona, non sempre riescono a riportare l'ordine. La casa del giornalista Davide Sega, per esempio, è devastata completamente, in località Serro. A Bolzaneto si registrano violenze contro vecchi squadristi, in particolare contro un gruppo di dipendenti delle «Ferriere Bruzzo». Vengono malmenati Desole, Persico e l'operaio Antonio Ledda, che viene inseguito fuori dall' abitato da un gruppo di agitatori filo-comunisti e linciato sulle alture. Ci si scaglia contro i miseri alloggi di quanti - pur essendo semplici proletari - non sono stati lesti a cambiare bandiera.
Vanno in fumo mobili, povere stoviglie e, anche qui, preziosi viveri. Lo ricordava con precisione Don Berto Ferrari, il prete antifascista che a Bolzaneto fu parroco, nel suo libro «Prete e partigiano» del 1982. Al milite Alessandro Mignani, assente per servizio, incendiano la casa. La moglie e i quattro figli restano in strada, con i soli vestiti che portano addosso.
A Rivarolo va in fumo tutto ciò che contiene il Castello Foltzer, sede del Gruppo rionale fascista «Mussolini». Sono malmenati i fascisti più in vista e il farmacista Testori, vecchio militante, si barrica in casa, sparando con una pistola dalle finestre.
Sarà poi tratto in salvo, dopo lunghe trattative, da alcuni di vigili urbani, ma la sua farmacia è completamente distrutta. Scrive Maurizio Lamponi nel suo «Il fascismo in Valpolcevera»: «...Molti negozi di Certosa, Rivarolo, Bolzaneto e Pontedecimo ebbero porte e cristalli delle vetrine danneggiati dall'enorme calore sviluppatosi dai falò, così come molte strade asfaltate conservarono a lungo le tracce dello scioglimento del bitume nei punti in cui essi divamparono».
A Sampierdarena viene devastata la sartoria Lusvardi, nei pressi del Teatro Modena, come le abitazioni del ferroviere Galetti, del fiduciario del P.N.F. Balbi e di molti altri. I teppisti, con la scusa della politica, svaligiano la rivendita di vini Casella, sita in via Mazzucco (oggi via Carlo Rolando), sfondando pure le botti, che riversano in strada un autentico fiume di vino. Il milite Gobetti, che presta servizio a Forte Belvedere, vede i «rossi» con il binocolo. Gli stanno gettando tutto dalle finestre. Imbraccia il moschetto e apre il fuoco. Dopo i primi colpi, la gente si ritira fuggendo.
Altri vanno a distruggere la sede dell' Universale, cioè la Casa del fascio, dove si brucia, si spacca, si ruba a man bassa, disperdendo anche rari, preziosi cimeli mazziniani e un dipinto del Barabino. Dovranno intervenire i marinai del Comando di Genova per riportare la calma, ma non prima che sia devastata anche la «Casa della madre e del fanciullo», gioiello di funzionalità e sostegno di numerose famiglie del popolo. Spettacoli indecorosi, stampati nella memoria di chi vi assistette.
Il 27 luglio, in piazza Montano, un gruppo di scalmanati insulta un anziano, dandogli, va da sè, del fascista. Questo reagisce agli insulti. Ne nasce un parapiglia. Un ufficiale dell'esercito, che transita in via Urbano Rela con un plotone di soldati, interviene per dividere i contendenti, ma riceve un sonoro pugno da parte di uno dei giovinastri, finendo a terra. Estratta la pistola, l'ufficiale fa in tempo a sparare e colpire uno dei giovani, il diciannovenne Rocco Calogero, che stramazza colpito in pieno in Piazza Settembrini, tra il fuggi-fuggi generale.
A Sestri Ponente, assalita la Casa littoria, devastate molte abitazioni, malmenati numerosi fascisti. I facinorosi ci trovano gusto e insistono per più giorni, nonostante le misure messe in atto dai militari siano rigide. Sfidare la legge costa caro: secondo quanto riportato nel volume «La Resistenza sestrese» di Clara Causa, perdono la vita ben quattro civili. Il 27 luglio è colpito certo Silvestro Barbieri, e nello stesso giorno è uccisa anche una donna, Maria Nervi. Il 28 si spara su G.B. Gianello, mentre il 29 muore sotto i colpi delle forze dell' ordine un' altra donna, Emma Canepa.
Pegli e Pra non fanno differenza. Come un'onda lunga, la violenza antifascista dilaga anche qui, e a farne le spese sono, come al solito, gli edifici del partito e le case dei personaggi più in vista, che a volte sono i militi più umili e coerenti. Bruciano bandiere, labari, gagliardetti, diplomi, documenti, fotografie, camicie e divise nere, tutta la coreografia, pubblica e privata, di un regime.
A Voltri, stando al volume di Augusto Miroglio «Venti anni contro venti mesi», oltre a devastare la Casa del fascio, sulla cui sommità sventola ora una bandiera rossa, si saccheggia l'antica dimora della famiglia Spotorno e vengono malmenati i guardiani degli stabilimenti. I militari del Regio Esercito intervengono per portare in salvo proprio il capo dei guardiani del «Cantiere Ansaldo-Cerusa», minacciato da un gruppo di operai. Il seme della guerra civile è stato gettato, basterà solo bagnarlo con il sangue di tanti italiani.
Incaricati di reprimere manifestazioni e assembramenti non autorizzati, gli alpini del Battaglione «Val Chisone» transitano in camion attraverso Genova. Aggrediti e provocati da alcuni facinorosi, i militari non esitano ad ottemperare agli ordini ricevuti, e aprono il fuoco direttamente dai cassoni dei veicoli, colpendo a morte un civile in via Fereggiano.
Un gruppo di ladruncoli, armati di una scure, tenta di forzare la saracinesca di un negozio di scarpe in via del Campo, di proprietà di un fascista. Non ci riescono e si portano sul retro, in vico dei Fregoso, per cercare di entrare dalla porta del magazzino. Ma un gruppo di militari del vicino Comando Militare Territoriale di piazza della Nunziata, comandati da un tenente, apre il fuoco per disperderli, riuscendoci alla prima salva. Un colpo di fucile mitragliatore scheggia un' antica pietra, ed è ancora oggi visibile.
Nei giorni seguenti si rimuove la grande statua di Costanzo Ciano, alla rotonda di via Corsica. Si scalpellano i fasci della Casa del Balilla di via Cesarea, del Palazzo dell' Inps di piazza della Vittoria, e così via, in tutti gli edifici pubblici. Palazzo Patrone, storica sede della Federazione fascista genovese, viene messo a soqquadro, ma le truppe sopraggiunte dal vicino Palazzo Belimbau, sede del XV Corpo d' Armata, riescono a riportare un po' di ordine, tanto che già nelle giornate successive, alcuni fascisti pongono in salvo i pochi documenti che erano sfuggiti all' ira dei manifestanti.
La Milizia volontaria per la sicurezza nazionale, cioè le camicie nere in armi, non sono sciolte, ma incorporate nell' Esercito, con la sola scomparsa dei fregi del passato regime. I militi sono comunque consegnati nelle caserme, per evitare provocazioni. Prevale la disciplina, forse la rassegnazione.
Intanto, nelle medesime ore, in Sicilia, fedeli al giuramento prestato e nonostante tutto stia andando a rotoli, i reparti della Divisione «Livorno» continuano a combattere a fianco dei tedeschi, contro gli americani dilaganti. Muoiono anche alcuni soldati genovesi: Aurelio Banchero di Torriglia, Francesco Pomata di Bavari, Stefano Tavella di Ronco Scrivia e il sergente Aldo Poggi, originario di Gavi (Al). I tedeschi renderanno onore a questi alleati caduti insieme ai loro soldati.
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