L’uomo ha vissuto quattro volte. Il primo tempo l’ha giocato con la maglia della Lazio di Maestrelli, nei bui anni Settanta che sapevano di botte e tensioni politiche. Il secondo l’ha giocato nei cieli, pilota di linea di aerei Alitalia. Nel primo supplementare, poi, è sceso in campo in Parlamento, per due legislature. Ora, il terzino e comandante Luigi Martini, è pronto per il secondo supplementare: dopo essere stato consulente per la Cai, è stato nominato presidente dell’Enav, la società per l’assistenza al volo.
E i rigori, quando li tira?
«Eh, eh! Quelli li tirerò in mare, un altro mio grande amore. Però io non ho granché voglia di smettere di giocare, sa?».
Ha fatto di tutto e ora siede a capo di un cda, non è arrivato?
«Ho bisogno di stimoli per sentirmi vivo. Dare tutto per poi lasciare e ricominciare. Altrimenti è troppo facile».
Partiamo dal fischio d’inizio. Calciatore di Serie A...
«... e paracadutista! Andavo all’allenamento - in moto - e poi via a lanciarmi. Altro mondo, altri uomini. La Serie A di allora era un torneo dei bar un po’ più organizzato. Non c’erano gambe assicurate, manager che ti dicevano quando firmare autografi. Io i contratti li firmavo a cena».
La Lazio campione d’Italia nel ’74 è passata alla storia come una banda di fascisti rissosi. Leggenda o verità?
«Retorica con qualche verità».
Pistole in ritiro?
«Io mai. Ce l’avevo per difesa personale: sa, erano tempi un po’ difficili. Però andavo a sparare al poligono di Tor di Quinto. Ma qualcuno in ritiro veniva armato e una volta organizzammo un piccolo tirassegno coi barattoli. In quel motel di campagna la noia era infinita. Però arrivarono i carabinieri e ci fecero smettere subito».
Risse per un asciugacapelli?
«Ma no, una volta Pulici venne a chiedermi un phon e per scherzo gli impedimmo di entrare nello spogliatoio. Ci giocavamo, con questa aria da duri e con questa storia dei contrasti».
Però c’erano spogliatoi separati per i due clan...
«Sì, questo è vero. Da una parte Pulici, Wilson e Chinaglia. Dall’altra io e Re Cecconi. C’era una rivalità fortissima, tanto che i peggiori infortuni li subivamo in allenamento. Maestrelli non ci faceva fare esercizi, ma solo una partita di anche due ore in cui mettevamo tutta la nostra furia. Così la domenica sembrava una sgambata».
E la politica?
«C’entrava. Siamo stati i primi personaggi pubblici a fare outing. Eravamo tutti di destra e lo dicevamo con orgoglio, ma senza intenti provocatori. Erano gli anni delle Br e delle stragi, ma io mi dicevo: sono un uomo e ho delle idee politiche, perché non posso esprimerle?».
Così si è giocato la Nazionale?
«No, non sono mai stato discriminato. La realtà è che dopo lo scudetto non giocavo più come prima. Colpa mia e basta, tanto è vero che smisi di giocare a trent’anni».
Recentemente il portiere del Milan Christian Abbiati si è dichiarato fascista. Ha ancora senso?
«No, è fortemente anacronistico rifarsi a idee superate dalla storia. Il fascismo è morto sotto le bombe degli alleati».
Ma voi non vi dicevate fascisti?
«Noi seguivamo la destra di Almirante. Quella che poi Fini ha trasformato nella destra davvero nobile e moderna di oggi».
E così arriviamo al Parlamento...
«Dieci anni splendidi, dal ’96 al 2006, responsabile trasporti di Alleanza nazionale».
E poi?
«Poi il partito ha pensato di candidare più donne e ha rinunciato ai membri della società civile come me. Scelta perfetta. Serve ricambio e di certo non si può rinunciare a chi è un politico di professione e preparato».
Neanche una polemicuccia?
«Ci mancherebbe. Io posso solo ringraziare tutti. La politica mi ha fatto crescere. Da calciatore ero un solista, da pilota pensavo all’equipaggio, in Parlamento ho imparato a pensare alla comunità e ad ascoltare le ragioni degli altri senza imporre le mie».
Galli nel Pdl, Cabrini nell’Idv. Lei è stato utilizzato per le sue competenze, ma a volte sembra che i partiti arruolino i calciatori come “ figurine”...
«Non credo, i calciatori sviluppano doti da leader: ogni domenica ti giudicano in 50mila».
Dalla Lazio ad Alitalia, lei si è scelto situazioni complesse. Ora arriva in una società con un utile di 23 milioni. Vuole finalmente vincere facile?
«Eh eh! Quando vincemmo lo scudetto con l’1-0 al Foggia, io festeggiai sul lettino dell’infermeria, da solo, con la clavicola rotta, altro che vincere facile. So soffrire e relativizzare successi e sconfitte, non mi deprimo e non mi esalto. Ora mi aspetta la sfida di mantenere alti gli standard dei controllori di volo italiani, già i migliori d’Europa».
Nel manager Martini c’è ancora qualcosa del terzino corridore soprannominato «Zatopek»?
«Sì, ma ora non penso più solo a me. Alla cloche devi decidere per altre persone, diventi un uomo migliore, più responsabile. Ho imparato a usare la testa. Da giovane ero 80% istinto e 20% ragione. Ora è il contrario e ho capito tutti i miei errori».
Qualcuno tra gli errori ha anche messo in conto il fatto che lei abbia continuato a volare anche da parlamentare, vero?
«Sì e in molti a sinistra si sono indignati per partito preso. La realtà è che se avessi chiesto aspettativa mi sarebbero scaduti i brevetti e rifare l’iter di formazione sarebbe costato 2 miliardi di lire. Così l’azienda mi chiese di volare nei weekend, quando non ero a Roma, per non perdere l’abilitazione. Mi sono fatto un mazzo così, il mio stipendio è calato da 7 a 1,6 milioni di lire al mese e la mia pensione è inferiore del 40%. Altro che “Casta”...».
Restiamo a bordo: cosa ha pensato quando ha visto i suoi colleghi dell’Anpac esultare alla notizia del fallimento di Alitalia?
«Ho pensato che avevamo allevato degli stupidi. Quei 15 dirigenti del sindacato non avevano capito nulla. I piloti invece hanno volato tutti. Ci avevo scommesso la carriera con Rocco Sabelli: “Vedrai che i piloti non remeranno contro la compagnia”. E ho vinto: l’assenteismo dei piloti è dello 0,01%».
Caso gestito bene?
«A meraviglia, grazie al coraggio di Berlusconi. Senza di lui Alitalia sarebbe finita ad Air France: un regalo, per di più consegnato a domicilio».
Bene Berlusconi, ma il suo preferito rimane Fini...
«Rappresenta le idee della maggioranza degli italiani. È un leader affidabile e vero, che sa prendere le decisioni giuste anche andando contro la pancia dell’elettorato».
Ancora calcio in fundo: il suo vecchio rivale Chinaglia è ricercato. È accusato di aver cercato di lucrare sulla Lazio...
«Alla Lazio io devo tutto: la fama, i soldi che mi sono serviti per i brevetti. Ed essere un calciatore biancoceleste mi ha anche aiutato ad entrare in Alitalia. Io non soffrivo gli atteggiamenti di Chinaglia sul campo e fuori, ma vedere la Lazio ferita in questo modo mi addolora di più».
Se non fosse morto in quella tragica finta rapina, cosa le avrebbe detto il suo amico fraterno Luciano Re Cecconi nel vederla seduto in un
«Quello che mi disse quando lo convinsi a lanciarsi con me da un C-119 e si aprirono le porte. Tremava tutto, entravano folate di vento e Luciano mi guardò e disse: “Gigi, te l’ho sempre detto che eri un pirla”».
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