Intorno al Graal si avvolgono da secoli mille mistificazioni, di cui molti colleghi hanno dato conto da queste e altre colonne. Anche il sottoscritto, con i limiti suoi propri, è più volte intervenuto in merito, alla ricerca di quel brandello di verità che si può e deve sostenere. Se vi ritorno sopra è per provare a rispondere a questa domanda: perché la Chiesa (in specie cattolica) ha per lo più guardato con freddezza alle vicende graeliche? Eppure il Graal parla di Cristo e della sua passione, proponendosi come una reliquia e dunque un «testimone» delle ultime ore di Gesù. Sarebbe cioè perfetto per destare la memoria storica e suscitare il sentimento per limitatio Christi, una «imitazione di Cristo» sofferente e pronto a offrire la vita per gli uomini, come peraltro pensarono alcuni ambienti cistercensi nel Medioevo. Qual è dunque la ragione di questa ritrosia?
Il Graal compare sulla scena dellimmaginario occidentale verso la fine del XII secolo, quando un geniale autore di romanzi arturiani, Chrétien de Troyes, cesella una scena destinata a un successo mondiale: il giovane Perceval si ritrova in un misterioso castello il cui re è ferito gravemente; lì assiste alla processione di una spada, una lancia e un graal. Loggetto ha unaura ineffabile ma è soprattutto il suo contenuto a catturare lattenzione. Perceval dovrebbe a quel punto porre una semplice domanda: «A cosa serve?», ma tace. Il suo silenzio attiva la «cerca» del graal, dal momento che castello, re e oggetti spariscono e lintera corte di Artù si getta allinseguimento. Si badi però: la domanda che Perceval non pone è circa lo scopo del graal, e non: «Cosè?». Come dirà nel romanzo un eremita, il graal è senzaltro sainte chose ma non per sé bensì per la sua funzione: ovvero risanare il re e il regno. Su questo passaggio, dal semplice graal-recipiente al Graal-«cosa santa» si chiude lopera di Chrétien, che resta incompiuta. Ma il successo è tale che una folta schiera di continuatori dà linfa a un mito destinato probabilmente a non finire mai.
Questo filone ricchissimo è peraltro ora disponibile in edizione italiana con notevole competenza e lucidità critica da parte di un gruppo di studiosi sotto la guida di Mariantonia Liborio e Francesco Zambon (Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, «Meridiani» Mondadori, pagg. 1890, euro 55). I cinque testi che hanno fondato la leggenda sono rivisitati e presentati in un volume indispensabile per non perdersi nella selva graelica. Uno dei cui molteplici sentieri è unopera di Wolfram von Eschenbach, Titurel, dove si parla di non meglio identificati templeisen, ovvero «custodi del tempio» in cui si troverebbe il Graal. Una labile traccia tutta letteraria, sufficiente però a innescare le fantasie più dietrologiche, dai templari-custodi ai massoni eredi di questi. Sciocchezze, naturalmente, ma alimentate da una leggenda che, già pagana, era stata cristianizzata per poi tornare in mano ai pagani depoca moderna.
Qual è dunque la ragione di fondo della ritrosia della Chiesa davanti al perenne fenomeno-Graal? A mio avviso deriva dal fatto che il Graal non esiste, o meglio esiste solo come discorso e oggetto letterario, non in quanto oggetto reale. Cè sì una vasta letteratura in proposito, ma appunto di letteratura si tratta, arrovellatasi per secoli sullassenza di un oggetto dando per scontata la sua esistenza reale. Chiariamoci: stando ai Vangeli, certamente vi fu un recipiente dal quale Cristo bevve nellultima cena; tuttavia quel «calice» scompare in sostanza per la sproporzione con il suo contenuto che è la vera realtà. Leccessiva attenzione a un prodotto della mente, per quanto alto e nobile, rischia cioè di distogliere la tensione verso il contenuto del graal stesso, ovvero il sangue redentore di Cristo.
Ed è proprio questo rapporto tra storia (realtà) e letteratura (fiction) che scalza molti giudizi frettolosi come quello formulato dallo stimato Remo Cacitti, docente di Storia del cristianesimo antico alla Statale di Milano, in unintervista a La Stampa del 15 maggio.
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