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Camera ai democratici Senato in bilico fino all’ultimo voto

Il presidente ha votato in Texas e ha atteso i risultati a Washington. Voto elettronico a rischio: in alcuni Stati le macchine elettroniche sono andate in panne. Incertezza per il determinante seggio della Virginia

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

La lunga giornata elettorale è cominciata con qualche sorpresa, prima ancora degli exit poll più antelucani. In Virginia è tornato a casa per votare Oliver North, famoso negli anni Ottanta per avere organizzato la guerriglia contro il dittatore nicaraguense Ortega. Ci era tornato nei giorni scorsi per fare campagna contro di lui, ma ha vinto Ortega. Nel South Carolina non hanno lasciato votare il governatore, perché si era dimenticato a casa un documento di identità quando si è recato nel seggio. E in tre Stati, Ohio, Indiana e Tennessee, le ultraperfezionate macchine per votare sono andate in panne una volta di più, costringendo i presidenti dei seggi a ripiegare sullo «strumento dei poveri», cioè le schede di carta, qui dette all’europea anche se in realtà le hanno inventate in Australia.
George Bush ha votato in Texas ed è tornato a Washington, dove ha aspettato i risultati alla Casa Bianca. Dal suo ranch texano Bush ha sparato a zero sui democratici e sulle loro intenzioni fiscali: «Ti vogliono tassare di più quando nasci, quando lavori, quando vai in pensione e quando muori. Anche un respiro va tassato, e quando smetti di respirare tassano i tuoi figli». E ha rincarato la dose a proposito dell’Irak: «Non hanno niente da proporre, vogliono solo scappare, meglio se su qualche isola a ottomila chilometri di distanza».
Ma il discorso sulle labbra di tutti erano in realtà i sondaggi, quelli sì a sorpresa, che nelle ultime ore avevano indicato una specie di «resurrezione» dei repubblicani, che pare abbiano dimezzato il ritardo sugli avversari. I primi exit poll non hanno confermato né smentito questa ipotesi, perché hanno rilevato indicazioni miste. La prima favorevole ai democratici: qualche cedimento fra gli elettori più religiosi delle aree rurali dello Stato dell’Indiana, che potrebbe mettere in pericolo un paio di seggi repubblicani alla Camera, ma al Senato è stato subito rieletto un repubblicano. Massima incertezza nel Kentucky, con qualche progresso democratico. Questi sono i due Stati che hanno chiuso le urne con anticipo su tutti gli altri. Poi sono arrivati i risultati dalla Florida (rieletto un democratico) e del Vermont (un «indipendente» di sigla socialista ma che sta con i democratici). Massima incertezza, invece, per il seggio forse più importante della nottata: quello della Virginia dove il senatore repubblicano uscente Allen mantiene un vantaggio minimo sul neodemocratico Webb, ex romanziere ed ex membro del governo Reagan.
Eletto subito un democratico in West Virginia, indicazioni favorevoli ai democratici in Ohio. Nel Connecticut è subito in testa l’uscente Lieberman, un democratico ripudiato dal suo partito perché appoggiò la guerra in Irak, battuto alle primarie, ripresentatosi come indipendente, votato dai repubblicani, ma che ha giurato che rimarrà democratico. In pericolo in Pennsylvania il repubblicano Santorum, uno dei massimi esponenti della destra cristiana. Sono dati per il Senato, ma le battaglie più accese fino all’ultimo voto si delineano in una dozzina di seggi per la Camera, particolarmente nell’Indiana, in Kentucky, in Connecticut e nello Stato di New York, dove è subito rieletta trionfalmente Hillary Clinton. Mancano ancora una quindicina di seggi, e la mappa elettorale Usa si colora di blu per quanto riguarda la Camera (contrariamente agli europei, negli Usa il rosso indica la destra e il blu la sinistra), mentre il conteggio per il Senato è ancora incerto. Erano in palio 33 seggi su 100, e sulla base di quelli che non sono stati chiamati alle urne i repubblicani potevano contare su 40 seggi e i democratici su 27, aggiungendo i senatori eletti ieri, il vantaggio dei repubblicani si assottiglia a qualcosa come 45 a 40. Secondo i sondaggi, i repubblicani dovrebbero arrivare a 47 e i democratici a 40 con 13 seggi in bilico.
Alla Camera invece la «conquista» dei democratici sembra poter assumere dimensioni maggiori; ma mancano finora dati e indicazioni dalla «fascia della Bibbia», la più conservatrice d’America, dove maggiore è l’influsso dei predicatori evangelici. Si delinea una sorpresa in Florida, dove appare in testa il candidato repubblicano che ha preso il posto del deputato pedofilo Foley, non però in tempo per cambiare i nomi sulla scheda; per cui gli elettori repubblicani hanno dovuto fare la crocetta accanto al nome dell’uomo dello scandalo. Ma per «cosa» hanno votato gli americani? Qualche sorpresa dagli exit polls: la preoccupazione centrale non è stata né l’Irak, né il terrorismo, né l’economia, bensì la «corruzione». Chi la considera il problema numero uno ha votato con lieve distacco per i democratici, premiati invece dal problema dell’Irak e, a sorpresa, dagli elettori che si sono concentrati sull’economia.

Hanno prevalso i repubblicani, invece, fra coloro per cui il terrorismo è ancora il pericolo numero uno, ma con lieve margine.

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