Un campione diverso: diligente come uno scolaro

Tony Damascelli

Non so che cosa c’entri Gianluca Pessotto con questo calcio. In verità non l’ho mai capito da sempre. Perché con tatuaggi, fascette, capelli lunghi, orecchini, discodance, insulti, gomitate, sputi, lui, il ragazzo di Latisana, l’uomo di trentacinque anni, non ha mai avuto a che fare. Eppure ha giocato a football per una vita, diligente, come uno scolaro che porta a casa la pagella con tutte sufficienze, il diario senza macchie d’inchiostro e pagine con le orecchie, l’astuccio con le penne e la gomma ordinate al loro posto d’origine e quando nei hai bisogno, Gianluca è uno di quelli che suggerisce, che ti passa il compito, che mai ti consegna e ti consegnerà al professore. Un amico. Questo è stato da calciatore ed è, da uomo, Pessotto, friulano di rare ma utili parole, detto il professorino o l’intellettuale per gli occhiali da vista portati con eleganza, per il suo dire sempre pulito, mai volgare o tempestoso, anche nei fumi del dopo partita. Un giorno gli chiesero anche di scrivere versi dedicato al football. Prese la penna e mise giù questa poesia:
Inseguire un pallone
è come inseguire gli obiettivi
della vita,
ogni tanto lo puoi raggiungere,
ogni tanto ti può sfuggire.
Affrontare un avversario
è come affrontare
le difficoltà quotidiane,
a volte ti supera,
a volte riesci a bloccarlo,
sapendo che non devi
mai smettere di correre.
Vedere il pallone gonfiare
la rete,
è come sentire il proprio cuore
riempirsi di gioia.
Grazie calcio,
per avermi insegnato
a vivere giocando.
Meglio sarebbe non rileggerla oggi. O forse è giusto fermarsi, per capire, per cercare una spiegazione, un motivo, scorrendo le emozioni, immaginando il fermento del cuore.
È difficile trovare, nello zoo dei tifosi del pallone, qualcuno che abbia odiato Pessotto, che gli abbia urlato contro insulti e vergogne classiche del repertorio del nostro meraviglioso pubblico, violento e canaro. Perché Gianluca Pessotto, vestito di bianconero in campo, è sempre riuscito a essere diverso, staccandosi ma non distaccandosi dalla tribù vomitante e sgomitante, facendo il suo da terzino e centrocampista, soldato semplice e ogni tanto sergente, sempre a disposizione. Era cresciuto con i bambini del Milan, poi aveva frequentato le elementari del pallone a Varese in C2, quindi alla Massese e ancora a Bologna e Verona, roba fatta in fretta ma sempre in silenzio e doverosamente; aveva debuttato dodici anni orsono con il Toro e poi aveva definitivamente traslocato alla Juventus.
Qui ha vinto tutto quello che c’era per conoscere anche la nazionale. Si arrabbiò di brutto quando, in una perfida pagellina, lo paragonai a Fantozzi. Aveva dovuto marcare Zidane e la cosa non gli riuscì proprio, quasi gli si «erano intrecciati» i piedi. Si offese ma illustrò la rabbia con serenità disarmante. Smentì l’immagine ridicola segnando un gol su rigore a Van der Sar nella famosa semifinale europea contro l’Olanda. Ventidue volte in azzurro e poi l’ultima stagione, quella appena conclusa, con la Juve. Il 26 maggio scorso l’investitura a team manager, il capoclasse: «Sono molto felice per quest’opportunità.

È un’occasione che mi permette di intraprendere una nuova carriera e, al tempo stesso, di restare a contatto con la squadra e quindi di poter "assorbire" meglio il distacco dal campo. Inizio questa avventura con grande entusiasmo e farò di tutto per essere all’altezza del nuovo ruolo». Così aveva detto. Sono lontanissime quelle parole.

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