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Canguri e Mister Magoo. La neve benedice gli ultimi

L'australiano Bradbury vince nello short track perché è il solo a non cadere. I salti miopi di Eddie "The Eagle"

Steven Bradbury festeggia l'oro più inaspettato d sempre
Steven Bradbury festeggia l'oro più inaspettato d sempre

Voleva solo toccare la neve olimpica. Eddie "The Eagle" Edwards non aveva grandi speranze come discesista, ma nel 1984 provò davvero a qualificarsi per Sarajevo, quei Giochi che Josip Broz Tito aveva voluto ma che non riuscì mai a vedere. Eddie però è un cheltoniano, un ragazzo del Gloucestershire cresciuto nell'incanto di una stazione termale, dove il tempo si ferma e sembra un'illusione, con l'architettura Regency che si specchia nelle acque minerali del Chelt. I sogni da queste parti sono di casa. Solo che qui la grande passione sono i cavalli e non gli sci. Poco importa. Ci sarà un modo per atterrare dentro i cinque cerchi. Ci riprova quattro anni dopo. Canada, Calgary, ma questa volta la scommessa non è la discesa libera ma il salto dal trampolino. Qualcuno gli fa notare che lui è un'aquila troppo pesante per volare. Eddie va ad allenarsi a Lake Placid, senza soldi e senza attrezzature. Si dà da fare come intonacatore e spalatore di neve e dorme dove capita, perfino in un ospedale psichiatrico. Il bello è che qualche volta i sogni si avverano. The Eagle riesce a fare il record britannico che a livello internazionale è una miseria, ma serve a convincere la federazione inglese a iscriverlo alle olimpiadi. Lo permette il regolamento, ogni Paese può iscrivere un atleta in ogni competizione e non importa se sia una mezza schiappa. Sono le Olimpiadi di Alberto Tomba e Katarina Witt ma tra le star che commuovono il mondo c'è anche Eddie Edward. No, non vince, le sue gare sono in realtà imbarazzanti. Arriva ultimo nelle gare dal trampolino, quello normale e quello speciale, non superando mai i 70 metri e indossando il casco che gli è stato regalato dagli italiani e gli sci ricevuto dagli austriaci. I giornalisti, per i suoi occhiali spessi, lo chiamano Mr. Magoo, ma Ronald Reagan interrompe una riunione alla Casa Bianca per vedere le sue gare. Frank King, presidente del comitato olimpico, chiude i Giochi dicendo: "Alcuni atleti hanno vinto la medaglia d'oro, alcuni hanno battuto dei record, e alcuni di voi hanno addirittura volato come un'aquila". Il Cio però dopo il caso Edwards cambia il regolamento: niente più freak alle Olimpiadi.

I Giochi d'inverno sono un romanzo scritto a bassa temperatura. Non parlano di velocità assoluta, ma di equilibrio. Non raccontano la forza, raccontano la caduta. E soprattutto raccontano l'uomo quando è messo in condizioni innaturali, a dialogare con il gelo, con il silenzio, con la paura. La neve non applaude. La neve giudica. C'è qualcosa di profondamente narrativo nei Giochi d'inverno. Più che nello stadio, più che nella pista liscia dell'atletica. Qui ogni gesto è una trattativa con il limite. Ogni atleta sembra un personaggio di Jack London con la tuta tecnica. Combatte contro il freddo, contro il corpo, contro un errore che non perdona. La neve non concede replay. Le Olimpiadi d'inverno sono piene di eroi laterali, gente che non doveva esserci. Come la squadra di bob della Giamaica. O le ragazze nigeriane sul ghiaccio. Paesi senza inverno che decidono di sfidare l'inverno. Non è folklore, è un atto politico. È dire: il freddo non è proprietà privata di nessuno. E mentre noi discutiamo di diritti acquisiti, loro scendono in pista e riscrivono la geografia. E poi c'è Steven Bradbury, australiano, short track, Salt Lake City 2002. Arriva ultimo per tutta la gara. Ultimo. Poi all'ultima curva cadono tutti. Tutti. Lui resta in piedi. Vince l'oro. È una storia che piace ai cinici e agli ottimisti. Ai primi perché dimostra che il mondo è ingiusto. Ai secondi perché dimostra che resistere serve. Bradbury non accelera, non sorpassa. Aspetta. È una metafora perfetta dell'inverno: non si vince forzando, si vince restando. C'è una malinconia speciale nei Giochi d'inverno. Forse perché durano meno. Forse perché il pubblico è infagottato e distante. Forse perché la montagna non è democratica come uno stadio. Ti accoglie solo se sei preparato. Altrimenti ti respinge.

Così, a 50 giorni da Milano-Cortina, l'illusione è pensare che siano solo

impianti, investimenti, medaglie. No, saranno soprattutto storie. Una caduta, un azzardo, un gesto inutile ma giusto. Una vittoria che sembrerà sbagliata. La neve farà il suo lavoro: cancellare le tracce e salvare i racconti.

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