Come canne al vento: così i giovani sono sempre più fragili

Come canne al vento. Secondo don Chino Pezzoli i ragazzi sono così: fragili e capaci di spezzarsi per un soffio di vento. Ma a far paura oggi non è la rabbia. Quella gli adolescenti l’hanno sempre avuta. No, a far paura c’è molto di più perché nel frattempo la rabbia si è trasformata in disperazione. Sono ragazzi alle prese con un senso di vuoto che soffoca, annoiati, frustrati, schizzati. «C’è il boom dei figli vuoti come palloncini - scrive don Chino - con un’identità sottile come la membrana di gomma che l’aria gonfia. Basta una puntura di spillo che salta tutto». Ecco, a questo i padri non c’erano ancora arrivati. Oggi il figlio unico è diventato un super figlio, con doti e virtù straordinarie, difficilmente i genitori vedono limiti nei loro pargoli. «I super-fragili», li chiama Pezzoli. Nel suo ultimo libro Come canne al vento (Fondazione Promozione e Solidarietà umana edizione) il prete educatore spiega come diventare «pini radicati nella roccia», lui che negli ultimi 30 anni ha aperto diverse Comunità, Centri d’Ascolto, Case Famiglia per accogliere adolescenti fragili.
I sociologi hanno dato la colpa al ’68, a quello che è venuto dopo, alla libertà concessa e usata come un premio da non rifiutare a nessuno. Qualcuno ha puntato il dito sulla scuola, sugli insegnanti, sul principio di autorità evaporato. Altri hanno visto nella tv la causa principale. Il male dietro allo schermo, dove vincono sempre bellissime veline e ricchissimi calciatori. Don Chino sa che la fragilità è una miscela ben shakerata. «Esiste negli adolescenti una smania di visibilità da cultura televisiva, dove il mito dell’audience a tutti i costi, premia la notorietà, comunque essa sia ottenuta». L’esempio del prete-educatore è emblematico: parla di Erika e Omar, del delitto di Novi Ligure, di come i programmi televisivi abbiano affrontato la vicenda, dello «show» dei conduttori, dei plastici della villetta da esibire al pubblico, degli ospiti di turno chiamati ad analizzare, sezionare la vicenda pezzo per pezzo. Opinionisti, psicologi, criminologi alle prese con la moviola dei personaggi. Da Novi ad Avetrana la strada è quella. «La notorietà è diventato un valore». Tutti si fanno intervistare, attirano telecamere per farsi chiedere qualcosa, non importa cosa. Lo fanno addirittura i colpevoli. Ormai Avetrana è nelle case di tutti gli italiani. Si vedono ragazzini che si sbracciano dietro il cronista, mandano baci e salutano con la mano.
Tornano in mente le gemelle di Garlasco, le cugine di Chiara Poggi. Loro, che per un minuto di notorietà avevano falsificato una foto e avevano incollato la faccia di Chiara tra le loro. Si era scoperto dopo, che era tutto un fotomontaggio. Solo un trucco per apparire. Con Chiara in realtà non si vedevano mai, ma con quella trovata le loro facce erano finite sui giornali, in tv. Alla fine l’approccio di don Chino è quello che fa più male. Con lui non funzionano le scuse, non funzionano frasi fatte come: «Tutta colpa della società». No, con lui si torna alla responsabilità personale. «Non ditemi che questi sono figli di una società sfasciata. La società non genera figli, i genitori sì». E allora ci si ritrova genitori fin troppo permissivi di figli confusi, aggressivi, spaventati. E tutto questo spaventa. Hanno paura i giovani, le madri che cercano soluzioni, gli insegnanti alle prese con manuali che non funzionano. Le regole sono cambiate e tocca decodificarle. Anche quando con orrore si scopre un figlio che lascia un messaggio in rete e scrive: «Non sarò mai un vero “Emo“ fino a quando non mi suicido». Parte la richiesta di aiuto, il prete ascolta una mamma in lacrime che non sa che fare, che non ha capito neppure cosa significa «Emo». È il prete che gli racconta che il fenomeno è partito dalla musica punk rock, che i ragazzi «Emo» hanno una tendenza all’autolesionismo. Sa che sono richieste d’aiuto, di Peter Pan che non riescono a crescere.

Tutti a chiedere a domandare cosa c’è che non va? Quale ricetta? E lui che spiazza tutti con una risposta così semplice eppure così complicata: «Manca passione. I ragazzi devono tornare ad appassionarsi alla vita. Solo così tutto può tornare ad avere un senso».

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