È la sfida più importante della sua carriera, e non solo artistica. C’è in ballo il ricordo, il sentimento, l’amore, insomma il complesso legame padre e figlio. Ancora più complesso se ti chiami De André. È un’affascinante sfida «De André canta De André», il tour in cui Cristiano riassume per la prima volta, attraverso la sua maturità e i suoi umori, il repertorio dell’inimitabile Fabrizio. Un’anteprima il 28 giugno a Musicultura, una data speciale a Torino (Reggia di Venaria il 30) e poi via, una lunga serie di concerti (29 luglio a Roma e 14 settembre a Milano) dal richiamo multietnico e multigenerazionale.
Questo tour è un atto d’amore.
«Sì, e un progetto importante per me. E anche il ritorno definitivo alla musica; la musica funziona se comunichi emozioni e io per un certo tempo ho avuto bisogno di pensare, di metabolizzare il dolore della morte di papà, di vivere la gioia dei miei figli. Ora mi sento pronto a trasmettere la sua anima attraverso le mie emozioni. È una scommessa, un omaggio dovuto che porto avanti senza paura».
Non teme il confronto?
«No, con un genio come lui non ho potuto permettermi il complesso di Edipo. Avrei perso in partenza. Lui è inarrivabile, tanti hanno cantato i suoi brani, ma io sono quello che l’ha conosciuto meglio, che ne conosce i segreti; sono il più vicino all’originale, in fondo ho una manciata dei suoi cromosomi. Impossibile imitarlo, sia nel modo di essere che nel canto, quel modo di dividere le parole che era solo suo. Io posso solo avvicinare i nostri due mondi: la sua poesia ad un pizzico di rock».
Come le vive queste canzoni?
«Non faccio l’analisi intellettuale o filologica delle canzoni di papà; ci sono già tanti che lo fanno a proposito e a sproposito. Io le vivo come lui in modo semplice, diretto, umano, partecipativo».
Quali sono le canzoni di suo padre che più la toccano?
«Tante, troppe. Amico fragile però mi sembra la sua fotografia. Il ricordo più caro è legato a Verranno a chiederti del nostro amore; la compose in casa, una sera, per mia madre. Avevo quattro anni e la vidi dal buco della serratura abbracciarlo, ringraziandolo per avergliela dedicata. Poi i brani in dialetto che raccontano la sua genovesità. Insieme a Mauro Pagani ha aperto la strada italiana al ritorno al dialetto, soprattutto quello genovese che ha una splendida musicalità. Hanno aperto la strada alla musica etnica in Italia».
E cosa ammira di più in lui?
«Tante cose; prima di tutto la coerenza. Non s’è mai fatto fregare dai compromessi ed è cresciuto artisticamente mantenendo coerenza e forza di pensiero. Musicalmente da Tutti morimmo a stento a Creuza de ma si è evoluto senza mai cambiare. Mantenendo un’ispirazione che definirei toccante. Poi la sua apertura verso i deboli, i diseredati; lui sapeva che c’è tanta gente che vive storie che non può raccontare, e le raccontava per loro. E dava speranza a chi lo ascoltava, per questo i giovani ancora oggi si aggrappano a lui come a un’ancora».
Se dovesse descriverlo in una sola frase?
«Libero nella vita ma fedele all’arte; in lui e nelle sue canzoni c’è qualcosa di profondo che è legato alla fatica di vivere in un mondo pieno di cose ingiuste. Vedeva la vita in modo lucido e realista, ma a volte troppo pessimista».
Ovvero?
«Da vero anarchico voleva cambiare tutto subito, sognava che si potessero modificare le cose al volo. Oggi è considerato uno dei maggiori poeti del Novecento, ma allora a volte pensava di non dare abbastanza. A volte diceva: “ho scritto una manciata di canzoni che non servono a un cazzo”. Oggi sarebbe contento di come la gente lo celebra con affetto».
Dunque ci può raccontare qualcosa in più su questi concerti?
«Cerco di trasmettere la sua eredità, di raccogliere il testimone. In questa prima parte estiva, all’aperto, eseguiremo i brani più movimentati, perché il vento, il clima, il rumore, potrebbero snaturare i pezzi più intimisti.
E Cristiano De André autore?
«Durante questo “viaggio” continuerò a comporre; sto lavorando al nuovo album da cinque anni è vorrei pubblicarlo l’anno prossimo».
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