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Capello mantiene la sua prima promessa

Debutto vincente: 2-1 con la Svizzera per il neo ct inglese. Novanta minuti nel mirino dei critici e della tv, dal minuto di silenzio ai gesti per spiegarsi

Capello mantiene la sua prima promessa

Londra - Buona la prima, ma forse Capello non gradirà ricordare che l’unico ct inglese che, negli ultimi 50 anni, ha perso la prima è stato l’unico a vincere il mondiale: chapeau a sir Alf Ramsey. Mai ieri contava altro. Loro, i tifosi, applaudivano dalle tribune e lui fermo, immobile, nemmeno un ammicco, un saluto: quell’applauso ricevuto quaranta minuti prima della partita, nella solitudine di un leggendario Wembley, così diverso da quello che aveva conquistato da calciatore, era un darsi la mano. Ma niente, non un muscolo suo ha provato a rispondere. Poi loro, novantamila sulle tribune e la nazionale inglese, hanno cantato l’inno, quello che The Guardian ieri mattina ha perfidamente tradotto in italiano («Nel caso Fabio non lo capisca in inglese») e lui the England new manager, così era stato annunciato dall’altoparlante, zitto, in piedi, sull’attenti, fascia nera al braccio, per ricordare, con la sua nazionale, la tragedia che 50 anni fa distrusse il Manchester.

E quando su Wembley è sceso il silenzio, nel ricordo di quella storia, rotto (italianamente) da qualche fesso in tribuna, Fabio Capello, che gli inglesi traducono Fab Cap, è apparso quanto mai immobile, militaresco, un po’ terreo. «Sto qui», ha detto soltanto al suo vicino. E li è rimasto. Poco più di 5 minuti, il tanto per scaldarsi, capire e iniziare davvero la sua partita prima di lanciarsi verso il rettangolo di bordo campo da cui dirigere le operazioni contro la Svizzera e forse il mondo.

Allora, solo allora, è ricomparso il suo smanacciare. Ieri i giornali lo avevano già individuato foto su foto: dal medio levato (non proprio signorile) a quel mimare che lo rassomiglia tanto ad un allenatore di basket. Ieri sera erano gesti di mano più che parole. Duro l’inglese, ma si era capito. E i commentatori hanno già cominciato il leggendario tiro al piccione per cui vanno famosi da queste parti.
Perfidi gli inglesi, che mai come stavolta fanno rima con torinesi che Capello conosce bene (sapete quel detto: falsi e cortesi): buona fortuna Fabio, gli hanno scritto, ma guarda che non basterà fare il sergentone per vincere. Qualcuno si è rifatto alla promessa mancata circa il parlare in lingua. «Speriamo che sappia mantenere meglio le altre promesse». E nemmeno è passato inosservato il ritardo, cronometrato in 33 minuti, sull’ora della prima conferenza stampa. «Insegna la disciplina, ma poi lui arriva in ritardo». No, qui non passa niente. Anche l’idea di lasciare Owen subito in panchina è stata mal digerita. Ma per le questioni tecniche ci sarà tempo. Anche perchè tutti, chi più chi meno, son aggrappati a Fab Cap come a un feticcio: «Se non ce la faranno con lui, non ce la faranno mai», ha sentenziato il Daily Mirror. E si riferiva ai 42 anni d’attesa passati da qui al titolo mondiale del 1966. Ed infatti The Sun ha suggerito: «Siate leoni, non pecore».

Ce n’è per tutti, nel senso che Capello non è poi così solo con la compagnia della sua banda italiana. Anzi, Englatalia come l’hanno ridefinita, costretti alla commistione. Eppure in mezzo allo stadio, Fab Cap emozionato, concentrato, forse intimorito, aveva tutta l’aria di un generale al fronte: viso tirato, occhi puntati lontano. Forse sentiva il peso di quella giacchetta con tanto di stemma, che non era quello tricolore. Cap deve averci pensato camminando lento, solitario, verso il campo, sentendo sotto i piedi l’immaginaria passerella creata dagli inglesi: prima di iniziare, tante immagini sparate sul tabellone, la foto sulla copertina della rivista federale, con quel Ciao Fabio, che sembrava un ultimo buffetto prima di far sul serio. Poi tutto lo zoomare televisivo durante la partita, quell’essere imperturbabile anche al momento del gol del vantaggio di Jermaine Jenas, l’uomo schierato a sorpresa nel centrocampo. Solo un ok appena accennato con la mano. Ma niente di più. E così pure quando l’accoppiata Gerrard (gran giocata)-Wright ha riportato in avanti la squadra, dopo il pari di Derdiyok.

Come a sigillare e suggellare quella frase, che pare la sua carta costituente: chiamatemi Boss e io vi chiamerò squadra, quando lo sarete.

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