Francesco Damato
Lunga vita e parola, per carità, a Francesco Cossiga. Che ha appena annunciato con ironia, spero, scaramantica di non voler più parlare per prepararsi a «morire nella pace del Signore», avendone ricevuto «segni non equivoci». Siamo ormai in tanti ad esserci piacevolmente abituati al suo gusto del paradosso, emerito quanto il titolo di presidente della Repubblica che gli spetta anche dopo averne perduto le funzioni. Gli chiedo però molto amichevolmente di non ripeterci, questa volta davvero, l'auspicio più volte espresso negli ultimi tempi di vedere salire al Quirinale nella prossima primavera Massimo D'Alema. Al quale egli ha promesso il suo voto di senatore a vita, specie se al cosiddetto centrosinistra, in caso di vittoria elettorale, dovesse venire la tentazione di liberarsi di Romano Prodi dirottandolo da Palazzo Chigi al colle più alto di Roma.
Per nulla pentito di avere già permesso nell'autunno del 1998 con uno spericolato ribaltone all'allora segretario del partito della Quercia di assumere la guida del governo senza una investitura elettorale, ottenuta poco più di due anni prima proprio da Prodi, il simpatico e immaginifico Cossiga vorrebbe quindi togliersi il gusto di portare D'Alema ancora più in alto. Sarebbe, a suo avviso, il giusto epilogo di una carriera cominciata sì nel Pci, e quindi imbarazzante agli occhi di tanti che hanno sempre avversato quel partito, ma affrancata dalla caduta del comunismo. Che avrebbe peraltro avuto la fortuna, per i suoi eredi, di esplodere da solo, senza imporre un supplemento di morti agli eccidi procurati dai dittatori succedutisi al Cremlino per più di 70 anni.
Cossiga è tanto tentato dall'impresa che è andato nei giorni scorsi a casa di D'Alema per regalargli una bella leppa sarda, cioè un coltello a serramanico, metaforicamente utile a difenderlo dalle ennesime polemiche scoppiate sulla sua costosa barca, questa volta a causa della ex banca di Gianpiero Fiorani scelta per pagarne le rate. Ma a sbarrare la strada del Quirinale al presidente diessino non è, né sarà, questa storia della barca. Non lo sarà neppure il rimprovero che gli si muove di avere troppo sostenuto Giovanni Consorte nella discussa scalata dell'Unipol alla Banca Nazionale del Lavoro.
Gli ostacoli sulla strada di D'Alema, ammesso naturalmente ch'egli veramente aspiri a succedere a Carlo Azeglio Ciampi, nascono da altro. Innanzitutto dall'esito per nulla scontato delle elezioni d'aprile. Poi dai rapporti di forza all'interno della cosiddetta Unione prodiana. Poi ancora dall'obbiettiva difficoltà di raccogliere attorno ad una figura politica come la sua quel consenso trasversale solitamente necessario all'elezione parlamentare del presidente della Repubblica, destinato quindi a coinvolgere anche il centrodestra. Si tratterebbe di diventare non il presidente di una commissione bicamerale per le riforme istituzionali, come capitò proprio a D'Alema nella scorsa legislatura con l'appoggio di Silvio Berlusconi, ma il capo dello Stato.
Penso infine che a creare problemi a D'Alema sia lui stesso con certe scivolate caratteriali, delle quali mi permetto di segnalare l'ultima.
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