Carlo Borsani e la giustizia partigiana

Giornalista, divenuto cieco in un’azione di guerra, fu decorato con la medaglia d’oro

Soltanto un cadavere buttato su un carretto delle immondizie. Uno dei tanti sconosciuti che dopo la Liberazione venivano raccolti per le strade di Milano e gettati nelle fosse comuni. Ma l’uomo, ucciso il 29 aprile 1945 con un colpo alla nuca in viale Romagna, non era uno sconosciuto. Sapevano chi era i quattro partigiani che lo prelevarono all’Istituto oftalmico di via della Commenda. Tanto è vero che sul suo cadavere misero un cartello: «Ex medaglia d’oro».
Carlo Borsani, 28 anni, giornalista, la medaglia d’oro se l’era guadagnata in Grecia il 9 marzo 1941, tornando indietro, benché ferito, per soccorrere un commilitone, mentre il suo plotone si ritirava: lo scoppio di una bomba da mortaio gli aveva inferto ventisei ferite in tutto il corpo e aperto la scatola cranica. Operato nel piccolo ospedale da campo di Krionero, ebbe salva la vita ma non la vista. Tornò al fronte in Russia, benché cieco, per tenere alto il morale dei soldati.
Dopo l’8 settembre, Carlo Borsani si schierò con la Repubblica sociale, divenne presidente dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di guerra, e direttore di un nuovo quotidiano, La Repubblica fascista, una direzione affidatagli direttamente da Mussolini. Rimase sei mesi al posto di direttore, poi i suoi appelli a superare gli odii fratricidi, gli valsero l’ostilità del tandem oltranzista Farinacci-Pavolini che ne chiese la testa al Duce.
Com’è accaduto per i caduti della «parte sbagliata», su Carlo Borsani, dopo il piombo garibaldino, si è abbattuta anche la damnatio memoriae che lo ha trasformato, stando a quanto pubblicato su un «quaderno bianco» del comune di Milano nel 1986, in un «istigatore di massacri e torture». Questo nonostante fin dall’ottobre del 1945 il giornalista socialista Carlo Silvestri avesse fatto appello a De Gasperi per difendere la memoria dell’ucciso «che si batté come un fratello negli uffici delle SS all’Albergo Regina evitando la mia fucilazione e quella di alcuni compagni socialisti e comunisti». Il figlio, Carlo Borsani junior, querelò e vinse la causa.
Ma pochi oggi ormai sanno chi fu quest’uomo sinceramente devoto alla propria fede politica quanto alieno da furori ideologici. Lo richiama dalla penombra che avvolge il terribile periodo della guerra civile il libro scritto a quattro mani dalla nipote Benedetta Borsani e dal giornalista Luciano Garibaldi, con una prefazione dell’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli e una postfazione-racconto del giallista Andrea G. Pinketts (Un’altra storia, M&B Publishing, pagg. 104, euro 11).
Il libro ha più di una chiave di lettura: la vita semplice e onesta dell’uomo Borsani - cattolico, giornalista e poeta di delicata ispirazione - la testimonianza sulla dimenticata ferocia delle formazioni partigiane comuniste (il «revisionismo» che tanto indigna gli epigoni) e soprattutto un illuminante excursus (a cura di Luciano Garibaldi) sulla stampa della Repubblica sociale che ne mette in luce la complessità e le tensioni fra le diverse componenti.

Lo studio di Garibaldi esamina anche i casi dei giornalisti «anomali» Edmondo Cione e Concetto Pettinato, esponenti di una minoranza fascista che, come Carlo Borsani, tentava di uscire dalle tragiche secche della guerra civile.
Il suo ultimo editoriale su La Repubblica fascista, prima di essere licenziato, aveva come titolo «Per incontrarci» ed era rivolto agli antifascisti.

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