Il Carlo Felice aveva più successo quando il pubblico pativa il freddo

Un testimone degli anni Cinquanta ricorda il dopoguerra: il teatro, seppur distrutto, assolveva meglio alla funzione artistica e sociale

Il Carlo Felice aveva più successo quando il pubblico pativa il freddo

«Impossibile prevedere il futuro di un teatro ferito e amareggiato, attanagliato da una perenne crisi finanziaria con pesanti ricadute sulla programmazione artistica, con un preoccupante irrigidimento e allontanamento del pubblico e con la minacciosa “spada di Damocle” della chiusura definitiva...». Questo scriveva su il Giornale Barbara Catellani il 18 giugno scorso a proposito del Teatro Carlo Felice. E da queste considerazioni oggettive ho preso spunto per rammentare di un episodio remoto - ma alquanto significativo - in cui, assieme a altri ragazzi della mia età (siamo nel 1951) prendemmo parte ad una rappresentazione teatrale, che venne allestita, proprio, al Carlo Felice. Selezionati tra molti, forse, per la spigliatezza o per la poca timidezza, alla fine, rimanemmo un centinaio tra maschi e femmine dagli otto ai dodici anni. Così, di fretta, diventammo attori di un testo scritto da Gianni Rodari: «Stanotte non dorme il cortile», diretto dal regista Marcello Sartarelli.
Sarebbe stato uno spettacolo - rispetto ai precedenti di questo tipo, del cosiddetto «Teatro di Massa» - per l’originalità, tale da fare muovere più di 150 individui, tra giovani e adulti. Aldo Sciaccaluga, dirigente del Teatro Cattolico di Genova, per l’occasione, ebbe modo di affermare: «... tutti gli amatori del teatro dovrebbero sentire il dovere di partecipare a questa forma nuova di concepire il Teatro di massa, in cui si scorge uno spirito di umanità cristiana...».
Il contenuto trattava della storia di un cortile e, soprattutto, storia dei ragazzi che lo frequentavano, con i loro giochi, le loro fantasie. E che, dopo essere stati sconvolti dagli orrori della guerra, rinascevano dalle rovine con tutt’altro spirito. Alla base del dramma c’era un messaggio in cui si diceva che l’uomo doveva salvare se stesso dalla guerra - sempre incombente dalla tensione politica della «guerra fredda» - e dai soprusi e dalle conseguenze che provoca, soprattutto, nell’infanzia. Tutti gli uomini hanno un bene comune da salvaguardare: il dono della propria vita. E la vita è fatta di sogni, di fiabe (specie per i giovani), di fatiche, di speranze. In questo lavoro teatrale, il problema dei rapporti tra l’infanzia e la guerra (simbolo del male) veniva narrato, per renderlo più accessibile, come se si raccontasse una favola - tipico in Rodari - dove l’attore principale (qui la novità) era sostituito dall’insieme del collettivo fornito dai ragazzi.
Purtroppo, codesto esperimento, dove il protagonista era la (pluralità) e non il (singolo), ebbe un percorso breve... E le critiche più aspre (si accusavano Rodari e Sartarelli di spezzare una tradizione) arrivarono dalla sinistra. Se ricordo bene, un tentativo simile di sperimentare il «Teatro di Massa» lo tentò Bertold Brecht a Berlino, all’inizio del suo ritorno dall’esilio in Usa. Ma, dall’autorità della Germania dell’Est, fu persuaso (altrimenti avrebbe rischiato la galera) di cambiare impostazione.
Ricordo che per noi le prove iniziarono nei primi giorni di dicembre del 1950. Quelle ufficiali, invece, a gennaio, dopo l’Epifania, per andare in scena, appena dopo due mesi, il 17 febbraio (era un sabato sera) del 1951.
Ogni giorno, al pomeriggio, provavamo per oltre quattro ore. E per essere puntuali alle prove, il Comune aveva predisposto, per collaborare, un tranvai doppio che da Rivarolo, transitando per Sampierdarena, ci raccoglieva e ci portava a De Ferrari. E, al termine delle prove, quando il mezzo ci riconduceva a casa, noi ragazzi, non curanti della fatica fatta, ci mettevamo spesso, ancora, a cantare. Diffondendo inconsapevoli, dove si passava, una nota - eravamo oltre l’imbrunire - di allegria.
Il regista Sartarelli era paziente. Ci insegnava come muoversi e quali battute proferire nel tempo indicato. Non era semplice. Qualche volta assisteva, pure, Rodari che, da pedagogo com’era, intuendo le nostre perplessità, contribuiva, sorridendo, con gesti e con della mimica, a farci sbloccare. Gianni Rodari (1920-1980) oltre essersi specializzato in racconti edificanti, indirizzati alla gioventù, in quel tempo, era anche il Direttore del Giornalino per ragazzi il «Pioniere», che faceva concorrenza al «Vittorioso», di ispirazione cattolica, disegnato da Jacovitti. Ed io che frequentavo, anche, l’Oratorio di Don Bosco a Sampierdarena, compravo e leggevo l’uno e l’altro con assiduità. Mi chiedo come la gente riuscisse - in quegli anni difficili, del dopoguerra e della ricostruzione, dove si era circondati dalla miseria e dalle vicissitudini di ogni tipo - a trovare la forza morale per condurre una esistenza con dignità.
Non è da escludere che, allora, gli uomini fossero animati da fervori ideali di speranza. Che in loro vi fosse radicata la fiducia d’essere indispensabili per costruire una società - come veniva auspicato in rappresentazioni teatrali e in altre espressioni artistiche - dai presupposti più umani di quanto si fosse conosciuto.
Si! Ho la convinzione che vi era, nella maggioranza della gente, l’orgoglio di sentirsi artefici, per umili fossero state le proprie condizioni economiche, di un percorso verso orizzonti di cui si sarebbero potuti beneficiare, finalmente, tutti gli uomini.
Così credendo in noi stessi, gli ostacoli, con sacrifici, si superavano.
Per fare un esempio: il Teatro Carlo Felice, negli anni ’50 non era riscaldato. All’interno si stava, preferibilmente, con il cappotto (chi lo aveva) e con la sciarpa. E nessuno si vergognava. Poi, per sedersi vi erano sedili sistemati sopra a gradinate rifatte di cemento, come negli stadi. Nei bombardamenti che subì la città, in tempo di guerra, il nostro Teatro venne colpito, in modo grave, sia nel 1942 e sia nel 1943. Eppure, nonostante fosse in prevalenza transennato e addobbato con tendaggi provvisori, per coprire venature e crepe dei muri, il Carlo Felice assolse, ugualmente, e per diverse stagioni (la situazione si protrasse per anni), ad una funzione artistica ed aggregativa, con concerti e allestimenti operistici di valore. E mai a nessuno gli passava nella mente d’inveire o di contestare. Forse, qualcuno potrà osservare che in quel passato si era ingenui e romantici. Può darsi. Però, si andava avanti con entusiasmo.

Infatti, il giorno dopo, del successo ottenuto da «Stanotte non dorme il cortile», il 18 febbraio 1951, alle ore 10, nella piazza di Pontedecimo, il regista Carlo Lizzani avrebbe presentato alla cittadinanza (si agiva a questo modo) l’inizio della lavorazione del film, «Actung Banditi».

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