Carloforte e l’ultima vera tonnara

Gabriele Zanatta

Si può estrarre la polpa della testa, tritarla, accompagnarla a succo d'agrumi e cipolline e sorprendere il palato degli scettici addirittura con l'aiuto della schiuma del suo stesso midollo. Si può prendere la trippa e farne una soppressata, felice sposa se maritata al pistacchio su un altare di agrodolce di pomodoro. Si possono laccare le sue guance al miele di cardo, dorarle in padella accanto a quelle del vitello, e poggiare in tavola un piatto acquolinoso, condito da salsa cannonau e asparagi. Si può persino prelevare la buzzonaglia, quella parte scura attorno alla spina dorsale che ad annusarla tutti i bambini fanno «bleah», e trasformare il disgusto in sinfonia, facendone, con salsiccia e pecorino, sughetto perfetto per la pasta (fresca, se possibile).
Benvenuti a Carloforte, borgo dell'isola di San Pietro, nel sud-ovest sardo, dove il tonno non è solo ventresca o bottarga ma è venerato in maniera universale, ovvero consumato in tutte le sue componenti, come il proverbiale suino delle tradizioni contadine. In questo senso, terreno più fertile di Carloforte non c'è perché qui, nel recente passato, del maiale del mare non si buttavano nemmeno quelle parti che, se le provavi a mandare giù, ti prendevano per matto: della pinna caudale le casalinghe facevano ramazza per scopare; dalle vertebre dei pesci più grossi i tabagisti ricavavano posacenere e dagli occhi bolliti i più piccoli staccavano il cristallino per giocarci a biglie.
A parecchi dei settemila abitanti di quest'isola, assediata da aromi di pino d'Aleppo e rosmarino, cinta di mare azzurro trasparente e scheggiata qua e là dal volo sulle saline di fenicotteri rosa, la confidenza chirurgica col tonno viene naturale soprattutto perché il pregiato pinnato rosso (thunnus thynnus dicono i dotti, bluefin tuna gli anglosassoni) è preda della tonnara locale almeno da metà '700. Fu allora che un gruppo di pescatori di corallo originari di Pegli, vicino a Genova, con trascorsi nell'arida isola tunisina di Tabarka, si stabilirono qui a coltivare la terra e a incastrare e matare (verbo castigliano da cui il nostro mattanza) quei razzi subacquei che arrivano di corsa a deporre le uova vicino alle coste, tra maggio e giugno, al termine di un lungo peregrinare dalle acque atlantiche (o da quelle pacifiche della Baja California, sostiene qualcuno). Il tutto pensando, gridando e imprecando in simil-genovese, cadenza buffa a sentirsi nella neonata e sardissima provincia di Carbonia-Iglesias.
Oddio, di mitologiche lotte e imprecazioni tra tonno e uomo in verità se ne vedono e sentono sempre meno perché lo stabilimento carlofortino che guarda in faccia l'Isola Piana, unico rimasto attivo in Italia dopo la chiusura di quella sicula di Bonagia e la trasmutazione di Favignana in circo turistico, non si sa se e per quanto potrà tirare ancora la carretta. «Ormai - lamenta Giuliano Greco, proprietario della tonnara di Carloforte - la pesca del tonno nel Mediterraneo è soprattutto affare delle tonnare volanti che in un solo giorno pescano quel che noi raccogliamo in una stagione intera. E con costi di gran lunga inferiori». Oltretutto banchi interi di tonni rossi vengono oggi identificati da imbarcazioni, molte giapponesi, dotate di avanzatissime diavolerie tecnologiche, già dallo stretto di Gibilterra.
Da qui, gli esemplari vengono trasferiti in giovane età nella famigerate tuna farm mediterranee, nelle quali però, a differenza di altri allevamenti ittici, i pesci non vengono fatti riprodurre: «All'inizio degli anni Novanta - spiega Greco -, pescavamo bestioni da mezza tonnellata: i tonnaroti che li cavalcavano non riuscivano nemmeno a toccar terra coi piedi. Adesso ne catturiamo molti, molti meno. E nessuno supera mai i due o tre quintali». Vista la crescente penuria, occorre dunque dar retta alla saggezza carlofortina: del tonno non si deve buttar via niente, oggi meno che mai. E soprattutto bisogna lavorar di fantasia.
Per inciso, i quattro piatti che esaltano le parti meno nobili citati all'inizio sono firmati dal giovane e già noto chef isolano Luigi Pomata, del ristorante Da Nicolo, affiliato ai Jeunes Restaurateurs D'Europe. E forse non è un caso che fu proprio l'ex presidente dell'associazione dei giovani ristoratori, Moreno Cedroni, chef della Madonnina del Pescatore di Senigallia nelle Marche, a sdoganare la buzzonaglia di tonno quando la presentò speziata con patate e grana padano alla prima edizione di Identità Golose.
Per quei suoi piatti, Pomata ha invece scelto il palcoscenico della Tuna cuisine competition, concorso culinario clou dell'ormai celebre rassegna Girotonno, www.girotonno.it, giunta quest'anno alla quinta edizione. La medaglia d'oro di questa sorta di campionato mondiale del tonno è stata appuntata a sorpresa sul petto di una coppia libanese: Youssef Antoun Barza e Kamil Bouloot, il primo chef-dirigente della catena di ristoranti internazionale Chase, www.chase.com.lb, il secondo re dei fornelli del modaiolo Rotana Cafè di Beirut. Hanno vinto con un equilibratissimo Tonno rosso marinato in cardamomo e sette spezie, servito in uno strato di baccalà, ceci e riso, con salsa tabouleh e meskeh.

Ovvero, crudità e cotture della migliore tradizione mediorientale con una saggia strizzata d'occhio a Occidente. Un cocktail che ha fatto capitolare la concorrenza di chef italiani, peruviani, catalani, giapponesi e tunisini.

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