Cultura e Spettacoli

«Caro Goffredo la tua superbia è inammissibile»

Il ragazzo morto e le comete, il romanzo d’esordio di Parise, uscì nel 1951, ma avrebbe potuto essere in libreria l’anno prima. Era questa l’intenzione di Neri Pozza, l’editore che aveva dato subito fiducia al talento di quel giovane scrittore e al suo rocambolesco personaggio ucciso da due pallottole vaganti. Lo provano le lettere tra i due, depositate nell’archivio storico della casa editrice vicentina, e recentemente pubblicate in Saranno idee d’arte e di poesia. Carteggi con Buzzati, Gadda, Montale e Parise, di Neri Pozza (pagg. 304, euro 14,50). Una corrispondenza che si rivela subito utile per avvicinarsi al carattere di Parise e alla fiera idea che aveva della sua opera.
A metà giugno 1950 Pozza gli scrive ch’è disposto a stampare il suo Ragazzo entro l’anno (per la prima edizione avrà un compenso unico di 20mila lire). Da una parte c’è una promessa della letteratura, dall’altra chi faceva della scoperta e della valorizzazione di nuovi autori (mai disgiunte da una robusta, protettrice dose di consigli) una ragione di vita. Tutto sembrava collimare, dunque, se si aggiunge che quel rapporto editoriale aveva anche i riflessi di una promettente amicizia.
Il 7 ottobre invece Pozza scrive al suo pupillo una lettera che ha il sapore di un ultimatum. «Caro Parise ti prego di riflettere... Quello che io ho fatto per te... aveva un solo scopo: mostrarti che il lavoro dell’artista non va disgiunto da quello dell’artigiano che non si stanca di restare sulla pagina... Di questo lavoro... te ne sei stancato presto... e a nulla sono valsi i miei richiami, se non a irritarti, a renderti ostinato senza alcuna ragione, anzi, peggio che ostinato, cieco di una superbia inammissibile... Così la nostra amicizia, entrata per la porta, è stata cacciata dalla finestra. Non capita mai, è capitato stavolta e non succederà più». Erano autentiche schegge d’ira, che neppure il bon ton della sintassi riusciva a celare. Parole che avrebbero dovuto impensierire un esordiente, per il quale era certo più facile rimestare speranze che certezze. Non Parise: «Caro Signor Pozza - risponde il 13 ottobre - dopo matura riflessione e dopo maturo esame dei Suoi consigli e delle Sue esortazioni... sono rimasto fermo nella mia determinazione di veder pubblicato il mio lavoro senza ulteriore modifica e quindi anche con le sue acerbità e storture».
La replica di Pozza è immediata: «Caro Parise... ho la sensazione di essermi spiegato male, forse di non averti fatto toccare con mano le cose che ti suggerivo, e che, per me, equivalgono a errori di ortografia». Ma quello dell’editore è solo un mancato colpo di coda. L’amicizia e la voglia di collaborare riprendono il sopravvento, e in conclusione riconosce che «abbiamo esagerato». Il rapporto, dunque, resta saldo. Non è scosso dall’iniziale insuccesso de Il ragazzo morto e le comete, mille copie che non ne volevano sapere di lasciare gli scaffali delle librerie, né da quello - due anni dopo - de La grande vacanza, secondo romanzo di Parise. Al contrario, Pozza mette tutto nel felice salvadanaio dell’ironia. E il 26 gennaio 1954, a un «Edo» che l’anno prima si era impiegato da Garzanti, scrive: «Caro Parise suoniamo le trombe: abbiamo venduto una copia della Grande Vacanza. Vecchia chiave, che le beviamo queste settecento lire?».
Ma il rigore dell’editore torna all’assalto sei mesi dopo. Oggetto Il prete bello (Garzanti) che sarà uno dei primi best-seller del dopoguerra. «Il mio giudizio è negativo - gli scrive il 15 giugno 1954 - e più di tutto mi è dispiaciuta l’estetica della miseria che c’è dentro e nella quale i tuoi personaggi si pavoneggiano. La miseria è una cosa seria e grave, e ci vuol altro che lo spirito e le bestemmie dei tuoi grandi e piccoli per farla diventare, come vorresti, autentica». Parere analogo aveva dato Leo Longanesi su Il Borghese: «Caro Parise se Lei avesse davvero vissuto tra “figli di prostitute e ladri” non verrebbe a dircelo; se ora ce lo spiattella a grandi lettere, è segno che su queste miserie ci specula».
Ma è forse l’ultima - del luglio 1978 - la lettera più preziosa del carteggio. Perché ci restituisce l’autentica vena malinconica dello scrittore, quella dei Sillabari. Le schermaglie letterarie con Pozza sono ormai lontane. Resta un rapido sguardo dattiloscritto, con qualche correzione autografa, gettato su se stesso: «Caro Neri... non mi piace stare a Roma, e sono un’anima in pena, molto più che un tempo. Vorrei una casa con qualche rumore di gocce e di pioggia... Che potesse dare un senso di regressione come dicono oggi, di memoria o ricordo come si diceva ieri... Dove si potesse respirare il senso del tempo, sia atmosferico, sia psichico.

E così, ma senza troppe scosse, diventare vecchi e morire in una giornata di vento».

Commenti