«Ho bisogno di te, Bruno. Non mollare, ti prego. Non fare sciocchezze, resisti, schiva le delusioni, scrollati di dosso le amarezze, combatti come hai sempre fatto in questi anni. Fallo per me, per i tuoi figli, per il nipotino che porta il tuo nome. Fallo per chi ha sempre creduto in te e non a una giustizia ingiusta costruita su sentenze emesse dai pentiti. Non darla vinta ai vari Caino che ti hanno voluto, e continuano a volerti, male. Tra poco festeggeremo il nostro 49esimo anniversario di matrimonio, ti prego, ti scongiuro, non lasciarti andare... ». L’appello è disperato, la voce strozzata, il tono straziante. Adriana Del Vecchio, moglie di Bruno Contrada, attraverso il Giornale parla al «mio amato Bruno» che ha appena deciso di lasciare, contro il parere dei medici, l’ospedale napoletano.
Suo marito vuol lasciarsi morire, come sostiene Anna Contrada, sua cognata?
«È un momento drammatico, non so cosa dire, cosa pensare. Bruno è uno che ha sempre lottato, e adesso mi rifiuto di pensare che abbia deciso di alzare bandiera bianca. Voglio pensare che abbia influito la situazione logistica, le celle piccole che per uno come lui, colpito da enfisema polmonare, acuiscono il problema respiratorio. E poi sbatterlo di qua e di là, come un pacco, alla sua età quando medici dello Stato, e non dottori privati o di parte, hanno accertato le sue gravi condizioni di salute. Non so, non riesco a spiegarmi questa sua scelta. Bruno ha fatto testamento biologico ma non mi ha mai lasciato intendere di pensare al suicidio. Prego Iddio... ».
Forse questo dibattito sulla grazia lo ha logorato ancor più della malattia...
«È probabile. Chi conosce mio marito sa che ormai a lui della morte non interessa assolutamente nulla, se non per i riflessi dolorosi che avrebbe verso le persone a lui care. La cosa a cui tiene di più e che gli restituiscano l’onore, quello calpestato e umiliato attraverso un calvario giudiziario che ha pochi eguali nella storia delle Repubblica. Un’odissea vergognosa perpetrata grazie a un Caino, a cui se ne sono aggiunti via via altri nel tempo che dovranno un giorno confrontarsi con il Signore che non è solo Dio di bontà ma anche, e soprattutto, di giustizia. Spero nei giovani, nelle nuove generazioni. Spero in qualcuno che abbia voglia di andarsi a rileggere le pagine di un processo a dir poco agghiacciante... ».
Dove tra abbagli, ripensamenti, smentite, bugie, i pentiti recitano un ruolo di primo piano.
«Proprio così. Chi un bel giorno si è svegliato e ha accusato mio marito di essere uno sbirro colluso con la mafia, è stato, da Bruno, perseguito e arrestato insieme a tutti i suoi parenti malavitosi. Mi vien da sorridere a pensare a quel magistrato che scarcerò il mafioso Mutolo, arrestato da Bruno, e poi anni dopo condannò mio marito per collusioni con Cosa nostra grazie anche alle confessioni di Mutolo. Questi pentiti-delinquenti, che hanno decine di omicidi sulle spalle, che hanno trafficato in droga, che si sono macchiati dei delitti più agghiaccianti, e che hanno collaborato per mera convenienza, hanno raccontato menzogne su menzogne. Sono stati smascherati, sbugiardati in aula, ma mai perseguiti. Questi signori hanno pianificato un delitto peggiore di quello toccato a tanti uomini dello Stato uccisi dalla mafia: hanno deciso di vendicarsi, e per farlo hanno portato a morte lenta mio marito, spargendo veleni e infamie. Bruno porta la croce del martirio».
Crede che per fare luce su questo procedimento kafkiano possa servire una riapertura del processo o una commissione d’inchiesta sui pentiti?
«Non mi intendo di queste cose ma so che un giorno, non adesso, forse quando questo caso farà parte della storia, la verità vedrà la luce. Se oggi dovesse uscire un brandello di quella indicibile verità, succederebbe un putiferio poiché molti protagonisti del caso Contrada sono ancora in attività».
La sua speranza, signora, a questo punto qual è?
«La speranza, come ama sempre dire il mio amato Bruno citando un grande scrittore, sta nell’imprevisto.
gianmarco.chiocci@ilgiornale.it
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