Uno dei meriti di Sergio Romano è di scrivere con la chiarezza, precisione e cultura politica con cui parla. Il suo ultimo libro (Con gli occhi dell'Islam, mezzo secolo di storia in una prospettiva medio orientale, Longanesi, pagg. 226, euro 16.60) conferma queste doti di osservatore imparziale che non so quanto si addicano ad «occhi» islamici. I suoi sono gli occhi del diplomatico e dello storico che in 25 capitoletti - ispirati da viaggi nella regione e da molte acute analisi pubblicate su Il Corriere della Sera - affronta uno dei più complessi problemi della nostra epoca. Grande merito del libro è il tenersi lontano dal «millenarismo» invadente nelle questioni medio orientali in cui lintreccio fra politica e religione, tradizione e modernità, teocrazia e democrazia, nazionalismo ed eticità è inevitabile. Lo dimostrano i primi 4 capitoli del libro dedicati alle guerre del Libano, dellIrak baathista con lIran khomeinista, in Afghanistan e nella guerra civile algerina. Sergio Romano «fotografa» questi sanguinosi avvenimenti con un distacco difficile a mantenere quando tratta il conflitto palestinese, il fallimento della politica americana in Irak, il vano sforzo di trapiantare la democrazia in terreni refrattari al suo sviluppo. La prima sua «amara conclusione» (pag. 191) è che il Medio Oriente non è riuscito a creare la propria versione di stato moderno, regione in cui il modello democratico diventa spesso sinonimo di oligarchia, affarismo e corruzione. In questo contesto ha ragione nel consigliare allOccidente «di stare il più possibile alla finestra».
Difficilmente sarà ascoltato da governanti che debbono affrontare interessi strategici di lunga portata (frontiere, petrolio, acqua) assieme ai problemi quotidiani che per le masse nascono soprattutto dallo scontro fra la povertà di spazio e esuberanza di storia. (Non è solo il caso dell'Egitto, paese più grande della Francia ma con appena il 4,5% di superficie coltivabile). Il problema presente in maniera diversa per tutti i paesi della regione diventa esplosivo nel quadro di unurbanizzazione convulsa, priva di strutture sociali adeguate, in cui leterno conflitto fra città e campagna, fra residenti e nomadi sfugge al controllo dei governi e allautorità dei militari. Il potere, nelle società tradizionali, passa nelle mani di rappresentanti settari, autoproclamati guide di culti che per mantenersi in vita favoriscono la concorrenza dei radicalismi. Lo si vede nella questione palestinese a cui Sergio Romano dedica molto spazio e in quella israeliana di cui mi sembra che egli percepisca solo una parte della sua complessità. Egli ha certo ragione quando parla di crisi dello Stato sionista; coglie nel vivo e nella loro gravità gli effetti deleteri di unoccupazione militare trasformatasi in 40 anni in colonizzazione antistorica, impolitica e corruttrice da cui lo Stato fatica a districarsi. Ma la realtà israeliana è anche un fenomeno che sfugge dai correnti schemi di analisi razionale politica.
Come spiegare, ad esempio, la concorrenza produttiva di quattro gruppi di popolazione di quasi uguale proporzione - immigranti russi, orientali, occidentali - e la minoranza araba, concorrenza che dovrebbe logicamente essere perpetua fonte di tensione e disgregazione? Come spiegare la coesistenza fra fondamentalisti religiosi e fondamentalisti atei (meglio sarebbe dire anticlericali) in un paese teatro di scontri quotidiani fra radicati interessi costituiti teocratici e democratici? Come spiegare la rete di contatti umani (culturali, medici, economici, artistici ma anche nei talami) che si estende e si sviluppa dalle prigioni ai circoli artistici, dalle università alla televisione - fra due popoli divisi dal rifiuto ufficiale di ammettere le reciproche colpe?, da muri di cemento, da una martellante propaganda ostile e da quotidiane operazioni di guerriglia da ambo le parti?
Questa anormalità è certo pericolosa per lesistenza di uno Stato che si vuole ebraico come lo è stato per il popolo di Israele nel corso dei secoli. Se questo rappresenti solo degli svantaggi per chi ebreo o israeliano vuol restare, non lo so. Certo il pericolo non è quello di perdere lappoggio dellAmerica come vorrebbero i suoi avversari e coloro che dagli Stati Uniti e fuori di essi vorrebbero liberare il mondo dalla influenza della «lobby israeliana o ebraica». Ancor meno si tratta del pericolo di distruzione minacciato da leader paranoici arabi e islamici. Lanormalità è pericolosa nella misura in cui la società israeliana non saprà risolvere il dilemma della sua complessa identità, rispondere in modo accettabile, anche se non definitivo, alla domanda: Israele - Stato ebraico o Stato degli ebrei?
Sino ad oggi per fortuna nessuno - ed in primo luogo gli ebrei stessi - sa cosa sia uno Stato ebraico in epoca moderna (come del resto i musulmani per lo Stato islamico). Viene cosi lasciato al rifiuto del nemico il compito di mantenere attiva ed elastica una identità anomala e indefinita. Situazione paradossale che ricorda il ruolo che la giudeofobia ha avuto nel mantenere viva lidentità ebraica. Il rifiuto arabo islamico si rivela - assurdamente - come la maggiore causa della solidità della società israeliana in formazione, come la molla - assieme allimmigrazione - del suo invidiato, odiato, ammirato modello di inspiegabile progresso. Il che non è certo garanzia di sicurezza. Tuttaltro.
Misurare «il fenomeno Israele» sul metro della razionalità politica, o dellesperienza di altri popoli è comprensibile, utile ma insufficiente. Non spiega, ad esempio il fenomeno così preoccupante per le «nazioni» arabe e islamiche che sono agglomerati di etnie dentro confini fissati dalle potenze coloniali o dal loro immaginario mitico, il risveglio del «fossile» ebraico. Risveglio pericoloso e sovversivo precedente per il possibile risveglio di altri «fossili» politici, culturali, religiosi, etnici del Medio Oriente.
Non spiega il fatto che la fine della guerra fredda nonostante i pericoli rappresentati per un piccolo problematico paese come Israele che lotta dalla nascita per assicurarsi un posto riconosciuto nella società internazionale multipolare, permette allo Stato israeliano per la prima volta nella sua storia di scegliersi i suoi «padroni».
Ancor meno spiega il fatto - per molti aberrante - dellemigrazione di «vecchi israeliani» in Germania per ricostruirvi la presenza ebraica, mentre inspiegabilmente migliaia di ebrei detti «nuovi o del ritorno» in Africa e in Asia cercano di entrare, come ebrei religiosamente riconosciuti dalle autorità rabbiniche in un paese che se non è ancora molto ebraico certo, come correttamente indica Sergio Romano, non è più sionista.
Osservare Israele il Medio Oriente «con gli occhi dellIslam» può preoccupare ma è un esercizio utile. Esso rende il lettore più sensibile alla apparentemente assurda idea che toccare maldestramente allesistenza ebraica significa - alla fine - mettere in pericolo l'avvenire del mondo arabo e islamico più di quello israeliano.
«Se volete distruggere Israele, fate pace con lui» predicò nel 1964 il presidente tunisino Burghiba ai palestinesi e ai governi arabi dal grande campo profughi di Gerico. Questo consiglio non è stato sinora recepito. Forse lo sarà in futuro se non altro per non ripetere nel XXI secolo lesperienza dellEuropa nel secolo passato.
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