Carretta, vittima dell’oblio comunista

Il 18 settembre 1944, al processo contro l’ex questore di Roma Pietro Caruso, che si apriva davanti alla Corte d’Assise di Roma, era stato chiamato a testimoniare Donato Carretta, ex direttore del carcere di Regina Coeli durante l’occupazione tedesca. Costui comparve senza tradire la minima emozione. Non pareva affatto preoccupato. Non credeva di dover temere. Del resto nessuno, per quanto accecato dall’odio, avrebbe potuto definirlo un «mostro». Anzi, si sapeva che nello svolgimento delle sue funzioni aveva dato molteplici prove di umanità, prodigandosi per sottrarre alla pena di morte e alla deportazione parecchi ebrei romani e «politici». Ma si sbagliava. Quella mattina l’atmosfera era rovente. La folla reclamava vendetta. La presenza dell’ex direttore del carcere di Regina Coeli in aula non poteva passare inosservata. Eccitata dalle urla isteriche di una donna che l’aveva riconosciuto - «una di quelle pasionarie o tricoteuses - ha scritto Indro Montanelli - che a queste recite truci non mancano mai» - la folla che gremiva l’aula si avventò sullo sventurato Carretta che a pugni e calci venne trascinato fuori. Un gruppo di carabinieri tentò invano di sottrarlo alla folla inferocita. Il Carretta, i capelli strappati, il volto sanguinante e tagliato da una sciabolata, tentava di divincolarsi, restituiva i colpi. S’attaccò alla maniglia della vettura sulla quale volevano caricarlo. Lo spingevano, ma lui resisteva. Lo strapparono a forza e lo misero attraverso le rotaie del tram. Pretendevano che il manovratore mettesse in moto il mezzo per stritolarlo. Al rifiuto del tranviere inorridito, il furore della folla aumenta minacciosamente.
«A fiume, a fiume!», si urla. Il Carretta viene sollevato oltre il parapetto sinistro del ponte Umberto e lanciato nel Tevere. La corrente lo trascina per quanto egli cerchi di tenersi a galla nuotando. La folla vedendolo ancora vivo, impreca, urla: «A morte, a morte! Dalli, dalli!». L’antico grido di sangue della plebe romana. I più violenti scendono sulla riva, si impossessano di due barche e inseguono il Carretta che continua a dibattersi tra i mulinelli d’acqua. Gli sono addosso e con i remi lo colpiscono e lo spingono sott’acqua finché annega. La corrente trasporta ormai un cadavere. Il corpo viene infine recuperato e riportato a riva da due giovani i quali, giunti col tragico fardello sulla strada, cominciano a trascinarlo per i piedi mentre la testa e la faccia lasciano sull'asfalto una lunga striscia di sangue. La folla non è ancora soddisfatta; seguendo i due giovani forma un macabro corteo per il Lungotevere Castel Sant’Angelo, il Lungotevere in Sassia, la via della Lungara. Per circa due chilometri il corpo del Carretta venne trascinato per le vie della città. La meta è evidente: Regina Coeli. Qui il corpo viene scaraventato contro il portone della prigione. Molta gente, richiamata dal tumulto, si affacciava alle finestre delle case adiacenti e da un balcone superiore di Regina Coeli si affacciarono anche i familiari del Carretta che abitavano ancora nell’appartamento riservato al direttore del carcere. Le urla di dolore si mescolarono a quelle d’odio del popolaccio che nel frattempo era cresciuto e tumultuava. Non una voce si levò a impedire lo scempio che li degradava.
Qualcuno facendosi largo tra la folla, comparve con una corda. Il cadavere venne legato per i piedi, appeso col capo in giù ad una inferriata del pianterreno a destra del portone principale del carcere e in cerchio la moltitudine continua ad urlare davanti al corpo penzoloni che non ha più abito addosso; non gli restavano che le calze, le mutande, la camicia a brandelli.
La testa penzola per un’ora sopra il selciato spandendovi sangue e imbrattando tutto il muro. Dal parapetto del muricciolo davanti alle carceri la folla continua a urlare, c'è chi ride. Qualcuno fa l’atto di gettare una pietra contro l’impiccato: allora tutti ne seguono l’esempio. Comincia una vera e propria sassaiola contro quel corpo che ondeggia sotto i colpi. L’esaltazione dei presenti raggiunge in questo momento il massimo. Il cadavere del Carretta sfigurato non è che un ammasso irriconoscibile. Sono le 12,30. Solo allora arrivano alcuni agenti di polizia. Staccano il cadavere dall’inferriata e lo portano all’interno del carcere. Quell’orrendo linciaggio getterà un’ombra fosca su Roma «liberata» e sulla scena italiana; e dividerà la stessa sinistra.
Scrisse Benedetto Croce che «i socialisti Nenni e Pertini avevano espresso il loro dolore per il truce assassinio del Carretta, che era sempre stato favorevole agli incarcerati antifascisti e li aveva in molti modi aiutati». Esortò Pertini «a pubblicare quel che ha detto come la sola cosa che si possa fare per la memoria di quell’innocente sacrificato dalla folla, ebbra o forse da gente cattiva eccitata». (Benedetto Croce, Taccuini di guerra-1943-1945, Aldelphi, Milano). Spiegò che i socialisti, anche rivoluzionari, erano altra cosa dai comunisti: «Sono uomini e sono italiani; i comunisti sono macchine senza luce intellettuale e senza palpiti di cuore» (Idem).

Churchill rimase impressionato «dall’orribile oltraggioso linciaggio». Invece Togliatti, ministro nel governo Bonomi, ne fece un pubblico elogio. Sul povero Carretta, vittima dell’odio ideologico, cadde l’oblio. Sfacelo di un popolo.

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