Il fuoco di fila della sinistra sulla riforma costituzionale approvata dal centrodestra, su cui si voterà il 25-26 giugno, avviene su tre schiere. La prima, a scopo distruttivo, consiste nelle dichiarazioni negative sulla riforma: la parola dordine è «pasticcio». La seconda, a finalità costruttiva, consiste nella dichiarata intenzione di aprire un tavolo per una riforma condivisa ma solo se vince il No. La terza, minoritaria ma significativa perché potrebbe nascondere il vero obiettivo, sostenuta in particolare da Oliviero Diliberto, ma in larga misura anche da Oscar Luigi Scalfaro, è che la Costituzione del 1948 va bene così com'è (riformata dal centrosinistra per quanto riguarda il Titolo V, dando origine davvero a un «pasticcio», come testimonia il contenzioso tra Stato e Regioni presso la Corte costituzionale).
Il fronte contrapposto, quello del centrodestra, ha ceduto quello che era cedibile: ha ammesso che la sua riforma può essere perfezionata, e comunque integrata dal federalismo fiscale (su cui conviene anche la sinistra), ma insiste su un punto: deve vincere il Sì perché solo in tal modo la sinistra, che è maggioritaria, sarà costretta a intavolare trattative per una riforma condivisa. Se vince il No, invece, la sinistra resta con le mani libere: può aprire trattative o può tenersi la Costituzione che c'è anche se a parole dice che va riformata.
Allora bisogna mettere in campo un altro argomento per fare riflettere chi pensa di votare No e chi pensa di astenersi perché, alla base di queste due intenzioni, c'è un convincimento comune: che la Costituzione che abbiamo (quella del 1948 con la riforma parziale del 2001 fatta dalla sinistra) in fondo è andata bene per sessant'anni e, secondo Scalfaro, si può dire ancora giovane.
Il punto è che quella Costituzione non andava bene. E ciò per due motivi. Il primo, che dovrebbe essere caro alla sinistra, è che «fu scritta dai vincitori». Ma la sinistra, sempre pronta a denunziare «la storia scritta dai vincitori», tace sul punto perché essa era dalla parte dei vincitori. Il secondo è che, dal punto di vista dell'ingegneria costituzionale (tralasciamo l'aspetto ideologico del compromesso tra ala liberale, ala cattolica e ala marxista), cioè dal punto di vista intrinseco del documento, non ha funzionato. È comodo, come fanno alcuni costituzionalisti, dire che è soggetta a una interpretazione flessibile. Di fatto, non ha impedito la partitocrazia; ha favorito la sindacatocrazia e ogni sorta di corporativismo; ha favorito l'instabilità governativa (con la media di un governo all'anno); ha depresso il potere del Governo, riconquistato con l'espansione dell'attività per decreto che però ha scardinato il ruolo legislativo proprio del Parlamento; non è riuscita a impedire la deriva dei conti pubblici perché ha lasciato crescere il debito pubblico fino al 120% del Pil (bel modo di rispettare il principio della copertura della spesa secondo l'art. 81); ha consentito che il sistema politico, che essa avrebbe dovuto incanalare con le proprie «regole», arrivasse al collasso del 1992-1994; e, grazie a questo collasso, ha consentito che alcuni organi - presidenza della Repubblica, Corte costituzionale, Consiglio superiore della magistratura - allargassero le loro sfere di potere in modo surrettizio.
Ecco una ragione fondamentale per votare Sì e modificare sostanzialmente la Costituzione del 1948.
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