Carta straccia l’accordo dell’Ulivo

Carta straccia l’accordo dell’Ulivo

Paolo Armaroli

Se Romano Prodi non esistesse, bisognerebbe inventarlo. Perché? Oh bella, per il semplice motivo che nessuno più di lui ci mette di buonumore. Quando ride, perdutamente infischiandosi del detto che il riso abbonda sulla bocca degli stolti, sembra Mike Bongiorno. Allegria. Ma non se ne capisce la ragione. Voleva mettersi in proprio e gli hanno detto picche. Si è candidato alle primarie e rischia di assistere alla carica dei centouno, tali e tanti saranno i competitori: da Bertinotti a Pecoraro Scanio, da Di Pietro a (forse) Mastella.
E Rutelli? Ci sta pensando. Mentre l’astuto D’Alema è poco rassicurante quando dichiara di comprendere che in tanti desiderino «segnalare la propria presenza». Per di più, dopo la brutta botta presa al referendum sulla procreazione assistita, che a stento ha raggiunto il misero quorum del 25,9 per cento, gli alti papaveri dell’Unione in pratica convivono da separati in casa. Tutti reclamano garanzie, a riprova che nessuno si fida di nessuno.
Quando invece si fa serio e assume - noblesse oblige - una tipica aria professorale, Prodi supera in sense of humour il grande Buster Keaton, che faceva ridere a crepapelle con quella sua faccia da funerale di terza classe.
Con l’aggravante, per il Professore, che spesso e volentieri il suo umorismo è del tutto involontario. Intervistato di continuo, non fa che snocciolare buone intenzioni.
Il guaio è che restano appese a mezz’aria come caciocavalli. Mai che dica come realizzarle. Quasi che non fosse bastata la famosa lettera da Creta, piena di vuoto com’era. Ma poi, quasi a voler convincere se stesso, dichiara con accento grave (La Gazzetta del Mezzogiorno del 20 giugno): «Non sono né parole di circostanza né obiettivi generici. Basta considerarli uno per uno e si vedrà che sono esattamente l’opposto di ciò che questo governo e questa maggioranza hanno fatto negli ultimi quattro anni». Fosse ancora vivo Totò, replicherebbe: «Ma mi faccia il piacere!».
Consapevole di non poter contare sul diritto della forza, come un naufrago Prodi cerca di aggrapparsi, se non alla forza del diritto, almeno a un patto sottoscritto dai suoi infidi alleati. Così, reclama di tutto, di più.
Ma nelle concessioni costoro appaiono alquanto parsimoniosi. Il Professore pretende che in Parlamento la sua futura maggioranza - però mai dire gatto finché non ce l’hai nel sacco - dica sempre di sì al programma di governo che con tutto comodo verrà elaborato nei mesi avvenire? Gli è stato obiettato che in taluni casi ci si potrebbe anche astenere. Con il rischio, però, di fare un patatrac.
Ancora. Il Professore, memore di essere stato sbalzato di sella nel 1998, pone la condizione che se casca lui si va dritto dritto alle elezioni anticipate? È stato rassicurato, intendiamoci.
Però gli sono state rinfacciate due cose. La prima: fino a prova contraria la Costituzione conferisce il potere di scioglimento al Quirinale. La seconda: «Ma come, proprio tu che hai agitato lo spauracchio della tirannide della maggioranza e di Palazzo Chigi se passasse la riforma costituzionale del centrodestra. Proprio tu che solennemente hai pronunciato tre no duri come pietre. Proprio tu che ci hai costretto a respingere, con la minaccia di fare altrimenti il diavolo a quattro, tutti quanti i suoi articoli. Perfino quelli che avevano accolto i nostri emendamenti. Proprio tu adesso reclami più poteri al primo ministro di quanti addirittura sia disposta a concederne la Casa delle libertà? Non sarà che con questa tua ostinazione in autunno perderemo di brutto il referendum confermativo sulla riforma?».


A Prodi non è restato altro a questo punto che versare le classiche lacrime del coccodrillo. Anche perché un conto è l’efficacia di una riforma costituzionale, un altro la precarietà di stiracchiati accordi interpartitici. Nulla più che pezzi di carta cestinabili a piacimento.
paoloarmaroli@tin.it

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