Carta Ue, in Italia niente referendum

Egregio dott. Granzotto, la prego mi spieghi con parole semplici, come lei sa fare alla perfezione, perché ai francesi è stato concesso di dire la loro sulla Costituzione europea e a noi no. A noi non hanno chiesto se volevamo "entrare", né se approvavamo la costituzione, né ci chiederanno cosa ne pensiamo dell'ingresso della Turchia. Perché? Il nostro sistema di governo è meno «democratico» che in Francia e in Belgio? Penso siano in molti a chiederselo, la prego non riesco a trovare una spiegazione da nessuna parte. Va da sé che se il nostro sistema ci nega le opportunità di cui godono al di là delle Alpi .. be’, va cambiato!


Non è questione di democrazia, gentile lettrice, ma di stato d’animo. Ritrovandoci tra i fondatori dell'Europa europeista (la quale comincia a vagire col Trattato di Roma, 25 marzo 1957, che istituì la Cee) ci siamo sentiti e ci sentiamo tuttora in dovere di idolatrare la creatura che contribuimmo a mettere al mondo. Insomma, per noi (intendo dire per le istituzioni) l’Europa europeista è 'nu piezze 'e core. Tutto quello che fa o non fa va bene o gli è immediatamente perdonato. La Costituzione o Trattato costituzionale che dir si voglia? Splendido, mirabile, perfetto, il valore dei valori, l’ideale degli ideali, una roba da ratificare a scatola chiusa e il più in fretta possibile perché è griffata Europa. Per accontentarlo, quel piezze 'e core, ratifichiamo a chiusocchi ogni patto o accordo per via breve, parlamentare, in ciò confortati dall’articolo 75 della nostra Magna Carta che vieta i referendum «di autorizzazione a ratificare trattati internazionali» (articolo facilmente eludibile, ove ci fosse buona volontà, indicendo referendum consultivi, esattamente come ha fatto l’Olanda). Anche la Francia fa parte del drappello dei fondatori, ma è meno sentimentale. Le può capitare di tirare alla creatura qualche scappellotto (Ced, Comunità europea di difesa, ingresso dell’Inghilterra nella Cee: più che scappellotti, sberle). E sempre a differenza di noi preferisce coinvolgere i cittadini nel processo si unificazione (non dimentichiamoci che i francesi furono chiamati a esprimersi anche sul Trattato di Maastricht e il sì vinse per un soffio, segno che l’euroentusiasmo scemava via via che l’Europa europeista prendeva forma burocratizzandosi). Ma con l’uno-due franco-olandese nulla sarà più come prima e anche noi, inguaribili euroinvasati, saremo costretti a tornare coi piedi per terra. Perché i referendum del 29 maggio e del 1° giugno rappresentano il Termidoro dell’Unione, il momento della verità. E la verità è questa: l’Europa europeista non piace o piace sempre meno, non piace l’euro - il santo Graal dell’Europa europeista - non piace l’allargamento attuato troppo precipitosamente, non piace l’isterica, ottusa e costosissima burocrazia. Col Termidoro crolla il mito dell’Incorruttibile ovvero che chi trasloca da Parigi o Madrid o Roma o Atene a Bruxelles si trasfiguri facendosi migliore, più giusto, saggio, riflessivo e capace di quello che era in patria. E che tutto quello che si decide a Bruxelles sia indiscutibilmente la cosa migliore per 450 milioni di cittadini-sudditi.
C’è ancora gente (politici, intellettuali e giornalisti) che persiste nel sostenere che l’Europa europeista, l’Europa di Romano Prodi, per capirci, sia il Giardino dell’Eden, che l’euro ha portato solo benefici, che l’ingresso di dieci nuovi soci nell’Unione è una mano santa e sarà santissima quando al gruppo si unirà la Turchia. Ma è battaglia di retroguardia, canto del cigno dei Saint-Just: la protesta sale e non siamo più soli nel lamentarci della moneta unica, lo fanno gli spagnoli, i francesi, gli olandesi. C'è voluto il Termidoro per ammettere che il 90 per cento dei tedeschi è ostile all'euro, primo responsabile dei rincari (si mormora che la Bundesbank prepari l’uscita dalla moneta unica e il ritorno al marco: quando si tratta di agire, la Germania non si trastulla).

E con questi chiari di luna lei ritiene, gentile lettrice, che l’ingresso della Turchia nella così detta patria comune possa essere confermato in un salottino di Bruxelles, di Parigi o di Roma? Finiti i tempi dei salottini e della gestione radicalchic, elitaria dell’Europa. Da 29 maggio scorso gli eurofaraoni dovranno fare i conti con noi. E noi i conti li sappiamo fare.

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