
Esteriormente, la casa natale di Pierre Loti (1850-1923) qui a Rochefort, in quell'angolo di Francia che si chiama Charente-Maritime, non si discosta molto dalle altre abitazioni che furono un tempo l'emblema della buona borghesia ottocentesca cittadina: una sfilata di alte finestre che intervallano una facciata a due piani di pietra chiara, elegante, per nulla pretenziosa. Internamente però, quell'abitazione è un vero e proprio labirinto dove le civiltà si incrociano, una serie di quinte teatrali che tolgono il fiato, "l'abitazione di un mago" come la definì uno dei suoi biografi, ma forse sarebbe più esatto dire di un illusionista e insieme di un attore, tanto i decori, gli effetti scenici e i travestimenti si susseguono, saltando da un'epoca all'altra, da un continente all'altro. Del resto, vivente il suo proprietario, era lì che attrici come Sarah Bernhardt e principesse come Alice di Monaco, amavano recarsi ogni volta che Pierre Loti annunciava loro una nuova festa, ovvero una nuova rappresentazione...
Trasformata in un museo all'inizio degli anni Settanta del Novecento, il nuovo secolo ne aveva visto la chiusura per lavori di restauro e di consolidamento (alcuni dei soffitti erano sul punto di crollare) che si sono allungati per più di un decennio, con l'obiettivo di recuperare a pieno quella che era stata l'atmosfera in cui Loti aveva vissuto e di cui era stato l'assoluto artefice. Il risultato finale, oggi che finalmente ha riaperto i battenti, vale il viaggio.
Si comincia con la "pagoda giapponese", rosso e oro il colore dominante, sculture a profusione, un'imponente armatura di samurai dietro una vetrina. Nel 1866, al ritorno da un viaggio in Asia, erano stati seicento i chili di bagaglio dichiarati alla dogana... Di questa opulenza, per non dire bulimia di oggetti, è testimonianza anche la "sala cinese", con i suoi muri ricoperti di bassorilievi ricchi di simboli imperiali. Una foto di Loti, nelle vesti di mandarino del Celeste impero, campeggia in un angolo, uno dei suoi tanti, forse troppi, travestimenti, il desiderio ossessivo di avere mille vite, la sua, da sola, non sembrandogli né sufficiente né interessante.
Sempre orientale, ma questa volta il Medio oriente dell'impero ottomano che fu per lui una sorta di religione e, ancora, di immedesimazione, è il "salone turco", con il suo soffitto ispirato dall'Alhambra di Granada, una sinfonia di tappeti, cuscini, strumenti musicali, divani e broccati, che si affianca alla "moschea", con tanto di stele funeraria e dove Loti faceva entrare soltanto pochi intimi. Anche qui, una foto dello scrittore in tenuta araba, con tanto di burnus, turbante e scimitarra sublima l'ossessione e salva dalla pura e semplice caricatura.
A un altro lato della casa, si passa d'improvviso dalla "turquerie" al Medioevo, una vera e propria sala gotica, quella di un castello del XIV secolo, il gigantesco camino, le vetrate finemente istoriate, tavoli, panche, sedie dove venivano fatti accomodare gli ospiti per delle feste "cavalleresche"... La "chambre des Abeilles", così chiamata dalla miriade di api in stucco che la decorano, rimanda allo stile Impero, la "salle bleu" è tutta in stile Luigi XVI... Sorprende in entrambe l'assoluta mancanza di libri, per uno che a quarant'anni era già stato eletto all'Académie française e che di libri ne scriverà a dozzine, ma che amava vantarsi di non aver mai letto una riga che non fosse sua...
Al primo piano, al di sopra e al di fuori di ciò che può definirsi l'eccesso e la dismisura, il visitatore si ritrova infine in quella che fu la camera della sua infanzia prima, della sua vita da adulto poi, spartana nel mobilio e però un vero e proprio "gabinetto delle curiosità" dove si accumulano gusci di conchiglie, farfalle, fiori secchi, nidi di uccelli, giocattoli, ritagli di giornali, mappamondi e carte geografiche, giocattoli, tutto ciò che gli ricordava i giorni felici da bambino e che lui custodiva e teneva segreti affinché nessuno potesse profanarli.
Nato in una casa di donne, la madre, la sorella maggiore di lui di diciannove anni e dunque come una seconda madre, una nonna, una prozia, due zie, il mondo di Pierre Loti, pseudonimo di Louis-Marie-Julien Viaud, fu da subito un mondo senza uomini, se non per la figura, resa mitica dall'assenza, dall'attesa e poi dalla scomparsa precoce, a ventisette anni, di Gustave, il fratello ufficiale medico di marina che morirà di anemia tropicale nel Golfo del Bengala, il corpo "seppellito nell'immensità del mare"... È anche per questo che, marinaio a sua volta, Loti farà parte di quelli nati "sotto il segno dell'addio": ogni ora che suona sarà sempre quella dell'imbarco, ogni Paese in cui approda sarà sempre quello da cui dovrà salpare, ogni amore, ogni affetto si trasformeranno nella cenere del successivo abbandono. Sempre Loti fuggirà per ritrovarsi, si ritroverà per meglio lasciarsi. L'unico ritratto di sé che lo accontenterà è quello che nel 1896 gli fa Lucien Lévy-Dhurmer. Si intitola Fantôme d'orient ou Pierre Loti devant Istanbul e per l'appunto come un fantasma Loti si vede, evanescente eppure riconoscibile, dietro di lui i contorni sfumati di una capitale misteriosa, una falce di luna, la silhouette di una moschea, il mare punteggiato di luci...
Ammesso alla scuola navale a diciassette anni, il suo primo imbarco è a diciotto, l'ultimo, da capitano di vascello, a sessanta: in mezzo ci sono quarantadue anni di servizio, di cui venti passati navigando, la Cina e l'India, il Giappone e la Cambogia, le coste del Medio oriente e il Mar Nero. Anche il nome da scrittore gli viene da un viaggio: è a Tahiti che i dignitari della regina Pomarè IV lo soprannominano Loti, il nome di un fiore.
La prima volta che sbarca a Costantinopoli ha ventisei anni ed è l'inizio di una ossessione che non lo abbandonerà più, la patria d'elezione sospesa sulla nebbia del mare, il luogo perfetto per chi da fantasma va in cerca di sensazioni, anime, immagini. Poco prima di morire, una delegazione turca andrà a rendergli l'omaggio di Mustafà Kemal e dell'intera nazione...