Casini e le giravolte dell’Ulivo

Francesco Damato

Povero Casini. Fa una certa impressione sentirne ora parlare o vederne scrivere da quanti sino a qualche settimana fa lo indicavano a sinistra come l'elemento felicemente più spurio della odiata coalizione berlusconiana. Il segretario dei ds Piero Fassino, anche a costo di complicargli la vita nel centrodestra, o forse proprio per questo, si lasciò scappare una volta che la sinistra avrebbe potuto proporlo, o quanto meno sostenerlo, come successore di Carlo Azeglio Ciampi. Il cui mandato scadrà nella primavera dell'anno prossimo, cinque mesi dopo che il presidente della Camera avrà compiuto i 50 anni richiesti dall'articolo 84 della Costituzione per poter essere eletto capo dello Stato.
Quell'apertura fece sobbalzare anche molti compagni di partito di Fassino, che avevano tratto già dai risultati delle elezioni europee e di alcune amministrative la convinzione che il cosiddetto centrosinistra potesse fare nel 2006 il pieno, conquistando per sé la maggioranza dei seggi parlamentari, il governo e il Quirinale. Alla cui scalata non mancano certamente aspiranti smaniosi nell’Unione di Romano Prodi. Ce ne sono tanti, sopra e sottotraccia, che qualche tempo, forse per scongiurare una rissa in casa, il direttore dell’Unità propose la rielezione di Ciampi. E il Corriere della Sera, compiacente, si affrettò a chiedere il parere di Sandro Bondi per presentarne una rispettosa risposta interlocutoria come disponibilità di Forza Italia, anzi per attribuirgli l'idea.
Fu un capolavoro di distorsione mediatica: un campo nel quale la sinistra post-comunista è insuperabile, come dimostra il battage sui quattro milioni e più di persone che sarebbero accorse domenica alle Primarie come ad un'ordalia per “incoronare” Prodi alla testa del suo cartello elettorale e prenotare la caduta di Silvio Berlusconi.
Ora Casini, colpevole di condividere la riforma elettorale proporzionale e di avere applicato rigorosamente il regolamento della Camera per non lasciarne impantanare l'esame nell'ostruzionismo dell'opposizione, è diventato l'uomo nero della maggioranza. Colpevole inoltre di aver lasciato dimettere da segretario del suo partito Marco Follini, che l'opposizione sogna di arruolare prima o dopo nelle sue file, Casini è tornato ad essere solo «l'ex portaborse di Arnaldo Forlani, miracolato a occupare la terza carica dello Stato». Così ha scritto domenica sulla Repubblica Eugenio Scalfari, che per fortuna non è un magistrato. Altrimenti gli toglierebbe i diritti civili e politici, anch’essi prescritti dalla Costituzione per poter aspirare al Quirinale.
Restituito Casini all'anagrafe forlaniana, come se l'ex segretario della Dc fosse indicabile come campione del malaffare dopo la condanna per finanziamento illegale della politica, notoriamente praticato o tollerato in passato anche da molti che ora a sinistra fanno i moralisti, Scalfari ha ricondotto il dissidio politico tra l'ex moroteo Follini e lo stesso Casini ad un altro scontro di una trentina d'anni fa. Fu quello tra «Moro, che voleva che il potere servisse a raggiungere obiettivi di avanzamento democratico della società, e i suoi avversari» di partito, che «volevano il potere per il potere».

Peccato però che proprio la Repubblica cartacea di Scalfari alla vigilia del tragico sequestro di Moro, con l'aria di riprendere notizie americane, avesse attribuito al presidente dc la responsabilità dello scandalo delle tangenti della Lookheed ai politici italiani.

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