Caso Milano Il partito nella bufera

RomaLa «diversità etica» degli ex comunisti, mito fondativo del berlinguerismo nostalgico, non c’è più.
Che lo dica Matteo Renzi, il giovane sindaco di Firenze che non viene certo dalla tradizione del Pci e che anzi ne è un collaudato iconoclasta, non stupisce. Ma che con lui sia d’accordo Pier Luigi Bersani fa notizia. E ieri il segretario del Pd ha dato ragione a Renzi: «Nessuno - ha affermato - deve rivendicare differenze genetiche» sulla questione morale. Più laicamente, è tutto un problema di «regole stringenti» che i partiti, compreso il Pd, si devono dare. E noi, assicura, «useremo questa occasione dolorosa per fare un’ulteriore riflessione».
Parla alla festa dell’Api in corso nel reatino, il leader Pd. E nonostante il piatto ricco offerto dall’attualità sui guai della maggioranza (dal caos-manovra alle nuove scottanti intercettazioni su Berlusconi) sa che gli toccherà fronteggiare un terzo grado sulla vicenda giudiziaria del suo ex capo di segreteria. Da cui Bersani prende le distanze, e dopo aver ribadito la richiesta di rinunciare ai suoi diritti di imputato (come la prescrizione) arriva a rimproverare a Penati di aver accettato l’incarico che lui gli assegnò: «Col senno di poi, credo che lui stesso avrebbe dovuto avere una diversa valutazione». Ma guai a chi prova a coinvolgere lui e il partito: «Quando si tira dentro il Pd in cose in cui non c’entra noi mandiamo avanti gli avvocati. Vedo venir fuori teoremi che non hanno né capo né coda», come il «non poteva non sapere» di De Magistris. E guai a usare questa storia di presunte tangenti «rosse» per sbarrare la strada del governo agli ex Ds: «C’è un’inchiesta e non vogliamo delle zone d’ombra, ma sia chiaro che l’idea di additare il Pd come inutilizzabile per il futuro del Paese, approfittando di fatti dolorosi come questo, è irrealizzabile oltre che sbagliata».
È un timore ricorrente, questo, una nemesi che colpisce di volta in volta i leader post-Ds che si avvicinano alla stanza dei bottoni (vedi vicenda Unipol), e Bersani avverte: non è «accettabile» tirare il filo Penati per «infangare» l’intero Pd e «tirarne fuori le radici». Ed è «irrealistico» pensare di fare a meno del principale partito della sinistra per costruire gli assetti del dopo-Berlusconi, anche perché «il Paese ha poche risorse», e non possono certo essere Montezemolo, Casini o Profumo da soli i pilastri di un futuribile altro governo. «Nessuno riuscirà a fare del Pd una salma dell’alternativa», tuona il segretario.
Ma Bersani è il primo a sapere che anche dentro il suo stesso partito, se l’inchiesta dovesse farsi più pressante, c’è chi quel «filo» finirebbe per tirarlo.

Da un’altra festa di partito, quella del Pd a Pesaro, Walter Veltroni fa il controcanto: ribadisce che non vede alcun «fumus persecutionis» dalle parti di Monza, e avverte: il Pd «ha il dovere di non sottovalurare quel che sta accadendo, e di considerarlo un colpo molto serio alla sua identità».

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