«Cerco un regista che mi capisca forse Almodóvar»

«Non è detto che domani, è il secondo desiderio, non sia io a fare la regia»

da Roma
«Il signor Stelvio?».
«No, mi chiamo Stenio».
«Ma qui mi hanno scritto che lei si chiama Stelvio!...».
«Non facciamone un problema, Stelvio o Stenio, sono sempre io». «Bene, signor Stelvio-Stenio, sono Valeria Marini».
È da un mese che siamo sulle tracce della Divina. Aveva cominciato il mio redattore capo, poi aveva gettato la spugna e se n’era andato in vacanza a Minorca. «Comunque ha detto che l’intervista la vuole fare, che è importante e che la vuole fare bene. Richiamala fra qualche giorno». Fedele alla consegna ho eseguito: una volta stava per prendere l’aereo, un’altra stava per entrare in riunione, una terza stava per fare un tuffo in mare, sempre con molta professionalità. «Parli con Gianni» mi ha detto all’ultimo tentativo, prima di inabissarsi. «Fissi con lui l’appuntamento». Con Gianni ho parlato altre tre o quattro volte, abbiamo fissato e disdetto a più riprese, si può dire che nel frattempo sia nata un’amicizia. «Se dovessi fare quel tipo di vita mi avrebbero già ricoverato alla Neuro» gli ho detto. «Anche a me» è stata la riposta. Il mio redattore capo ha fatto in tempo a tornare a nuoto da Minorca ma, alla fine, la tenacia è stata premiata e adesso sono a casa della Marini, in piazza di Spagna.
Un paio d’ore prima ero al Bolognese, in piazza del Popolo. Avevo letto che era il ristorante preferito da Vittorio Cecchi Gori, «magari lo incrocio» mi ero detto. Anche Mario, il padre di Vittorio, era un habitué e anch’io, quando ero ragazzino, ci venivo con i miei genitori, per cui una cosa in comune con i Cecchi Gori ce l’ho. Al Bolognese si dà appuntamento «la Roma che conta», qualsiasi cosa questo significhi, ma a me piace l’idea che ci sia il carrello dei bolliti anche ad agosto, la tradizione, insomma. A un tavolo vicino c’era il sondaggista Nicola Piepoli, a un altro l’azzurro campione del mondo Andrea Pirlo, nella sala interna molte facce da pirla del generone romano e quella fauna politico-imprenditoriale che ha nei completi color carta da zucchero elettrico e nelle camicie bianche scravattate il suo must. «Nel pomeriggio intervisto Valeria Marini a casa sua» mi sono pavoneggiato con la mia amica Francesca davanti a un piatto di lasagne verdi. «La Marini? Ma se non sa fare niente» ha sbuffato lei. «Non sa cantare, non sa ballare, non sa recitare, non è nemmeno bella. Sei proprio caduto in basso». «Tre quarti dei maschi italiani vorrebbero essere al mio posto. Franco Zeffirelli l’ha definita l’ultima diva, dopo la Loren e la Lollo» ho pontificato. «Maschi italiani, Zeffirelli... ma falla finita» ha sibilato lei. Francesca ha una laurea in lettere, lavora alla Telecom, è un’intellettuale frustrata.
La casa della Marini è uno specchio. Non nel senso dell’ordine, ché anzi è abbastanza disordinata, borse e borsette un po’ dappertutto, il cellophane che ancora ricopre un divano, ma nel senso vero e proprio della parola: soffitto a specchio punteggiato da soli dorati in sala, soffitto a specchio nella camera di sopra, finestre a specchio per cui oltre a vederti parte della scalinata di Trinità dei Monti a sinistra, dove difatti è, te la ritrovi anche a destra, il che è spiazzante ma suggestivo. Su una parete c’è una sua foto fatta da David La Chapelle con le labbra e una mascherina da Zorro ritoccate in porporino rosa, di fronte, poggiata sullo schienale del divano, una di quelle serigrafie di Marilyn Monroe fatta da Andy Warhol. Dal soffitto a specchio due amorini in marmo, discinti, ti guardano dal piano di sopra. Fra le gambe hanno come un lembo dorato di vesti, ma visto di profilo, e da dove sono seduto, uno dei due sembra inalberare in quel punto qualcosa di diverso. Dev’essere l’effetto della Malvasia frizzante del Bolognese dico fra me. «Marzia l’abitino azzurro e las zapatillas basse rosas per favore» dice una voce dietro di me. «Ancora un minuto e sono pronta» aggiunge. Mi volto, lei è a piedi nudi, un copricostume nero, l’espressione di chi si è svegliata da poco, nemmeno un filo di trucco. Sorride e il volto le si illumina, come se avesse un interruttore interno. Penso che la mia amica Francesca abbia torto.
«Più che una diva sono un pitbull». L’intervista ha preso un binario strano. Ho esordito con una gaffe: «A che punto è la sua collezione di intimo?» ho chiesto con fare disinvolto. «Non è intimo è prêt-à-porter» mi ha subito corretto. «Nasce dall’intimo, ma diventa abbigliamento, sottoveste che si fa abito da sera, o da giorno. A settembre sfilo a Milano collezioni». Ho cercato di recuperare facendole i complimenti per la quantità di cose che fa, attrice, showgirl, stilista... Sarà faticoso, ho aggiunto, un carico di lavoro forse eccessivo... «Perché, mica mi obbliga nessuno» ha replicato seria. «Non è strafare, io sono così, faccio quello che sento, quello che mi va. Lo intendo alla americana... Sto anche scrivendo un libro su come raggiungere il successo, il perché della mia esperienza. Il titolo provvisorio è Valeria nella sua intimità, non è che mi piaccia molto. Oppure La forza dell’amore, ma mi piace anche meno... Poi mi attende il reality di Canale 5, Circus... Non so bene cosa farò, forse la domatrice di leoni...». È a questo punto che ho tirato fuori il jolly di Zeffirelli, ma lei l’ha lasciato cadere e al suo posto ha giocato la carta del mastino napoletano. «Franco è sempre stato molto gentile con me, ma la diva presuppone qualcosa di unico e di distaccato dalla gente comune che non mi appartiene. Lo accetto come complimento, ci mancherebbe, ma non sono così presuntuosa. E poi a me piace stare in mezzo alle persone, comunicare con loro, trasmettere gioia di vivere. Se dovessi definirmi direi che sono una che non si dà mai per vinta, una che se si mette in testa una cosa va fino in fondo. Azzanno e non mollo la presa». Un pitbull, appunto.
Che sia tenace lo si capisce da come risponde, che la tenacia, il non mollare siano una specie di mantra che ha il compito di rafforzare la stima di sé, è un dato di fatto. La Marini non dubita. «Io non debbo dimostrare di avere talento. Non credo che Peppino Patroni Griffi, con cui in teatro ho fatto Nata ieri, Mario Scaccia, con cui ho debuttato nei Ragazzi irresistibili, Alberto Sordi, che mi ha diretto nel suo ultimo film, mi avrebbero scelto se non avessero visto in me qualcosa di più di una bella ragazza. L’Italia è piena di belle ragazze... Certo, non sempre hai l’occasione di dimostrare quello che vali, e per quanto a me piaccia recitare, la popolarità può anche essere un handicap. In Italia se sei un volto televisivo hai difficoltà a passare sul grande schermo, e se poi la popolarità è legata, come nel mio caso, non a una trasmissione, ma a un modo d’essere, è ancora più complicato. Io ho fatto un film con Bigas Luna e un altro con Carlos Saura proprio perché in Spagna non ero un volto così noto come da noi... Il bello è che in televisione ci sono andata controvoglia, non è che ne fossi entusiasta. Poi, certo, mi sono resa conto che Il Bagaglino, Pingitore, erano un’occasione unica!».
Il discorso sul talento è venuto fuori per caso. Io non sono uno da interviste cattive, non mi piace mettere in difficoltà chi ti invita a casa sua e ti dedica un’ora abbondante del suo tempo. Così l’avevo presa alla larga: faccio la parte dell’avvocato del diavolo, le avevo detto, il portavoce di chi la critica dicendo che, in fondo, lei è un bluff... «Lei dice che sono un bluff?». «No, non io, altrimenti non sarei qui. Diciamo che mi faccio carico...». «Non dovevamo parlare di sogni nel cassetto, desideri che uno ha?». «Sì, certo, possiamo passare ai sogni...». «No, non è per cambiare argomento, è per restarci. Allora, stabilito che dopo quindici anni ininterrotti di successo quella critica non sta in piedi, le dico che il mio sogno sarebbe trovare un regista capace di tirar fuori la parte vulnerabile che è in me. Io ho un’immagine solare, forte, di una abituata a lottare e a vincere. E invece, per carattere, per temperamento, sono una persona fragile, una persona timida, piena di dubbi, piena di incertezze... Ecco, professionalmente mi piacerebbe un ruolo così, in fondo il ruolo della vera me stessa. Visto che stiamo sognando, il massimo sarebbe Pedro Almodóvar... Ma non è detto che domani, secondo sogno, decida di fare io la regia».
Per l’appartamento si aggira un gatto pechinese bianco, tosato di fresco. Si allunga sulla dormeuse tigrata, si struscia contro le sedie moderne, bianche, gli schienali alti, la seduta in rosso pitonato. L’appartamento è al terzo piano di un vecchio palazzo, non c’è ascensore, dall’ingresso al salone c’è ancora una rampa di scale, sulla porta brilla uno dei soli dorati che porta inciso il nome della padrona di casa. L’insieme è una via di mezzo fra uno studio professionale e una mansarda per studenti. «È il mio pezzo di paradiso» dice lei ridendo, eppure ti dà un’idea di solitudine. Valeria Marini è figlia di genitori divorziati e ha una una teoria in materia. «Ho fatto una ricerca e ho scoperto che moltissimi personaggi dello spettacolo vengono da famiglie divise. Così mi sono convinta che l’affetto del pubblico, la gratificazione che se ne ricava, sono una forma di compensazione per quello che non si è avuto: ti dà sicurezza, non ti fa sentire sola. Io ho un buon rapporto con i miei, di grande affetto per entrambi, ma la mancanza di una famiglia tradizionale è un qualcosa che ti rimane dentro. Dire che ne sogno una e che sogno dei figli sarebbe scontato, quello che in realtà mi piacerebbe sarebbe adottare un bambino, non lo so, mi sembra un atto d’amore superiore al farlo, come offrire una possibilità in più.

E certo, poi una sogna l’uomo della vita, quello che ti prende per come sei, pregi e difetti, che non vuole cambiarti...». «Non mi dirà che le mancano i corteggiatori» faccio io stupidamente galante. «Corteggiatori ne ho quanti ne voglio» mi fulmina. «È che quel tipo d’uomo, purtroppo, non esiste».

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