Certo, la monnezza è un problema Ma meno di un tempo

Caro dottor Granzotto, mi spieghi: Bruxelles ce l’ha con noi italiani che, come risulta dai sondaggi Eurostat, siamo i più europeisti dell’Unione? Si vuole favorire l’euroscetticismo? Mi riferisco alla condanna «per non aver adottato in Campania tutte le misure necessarie per evitare di mettere in pericolo la salute umana e danneggiare l’ambiente». La denuncia è del 2008 e da allora grazie al governo Berlusconi il problema della «monnezza» è stato risolto. Perché allora la sentenza postuma? Discutano caso mai a Bruxelles di come affrontare il problema dei rifiuti urbani, la nuova autentica emergenza globale dell’umanità.
Roma

Proprio vero, caro Mastrangelo, quella sentenza eurolandica è sorprendente, ma non è la prima volta che l’Europa ci sorprende (e, stia pur certo, non sarà l’ultima). Sarà che m’è venuto a noia per l’abuso che se ne fa, ma non mi trovo però così d’accordo con lei nel definire una emergenza - per di più «globale dell’umanità» - quella dei rifiuti. Quando non ci si mettono di mezzo Bassolino&Iervolino le cose filano abbastanza, da noi come in tutto il mondo industrializzato. Cioè quello che maggiormente produce pattume. Proprio nella sua Roma ci si può imbattere in antiche grida marmoree che la dicono lunga sul problema dei rifiuti ai bei tempi andati. Nel caso, gliene trascrivo una del 1759, presa pari pari dal mio Calepino: «Per ordine del Monsignor Presidente delle strade si proibisce di fare il mondezzaio in questo luogo sotto pena di scudi 25 ed altre pene in conformità». Le altre pene in conformità potevano essere «tre tratti di corda e altre ad arbitrio», come risulta da un’altra iscrizione. Quelle ordinanze non erano, però, segno di rigore, ma di una anarchia mondezzara che il Monsignor Presidente delle strade cercava di limitare almeno in prossimità di edifici eminenti.
Una anarchia che con il necessario verismo così pennella il memorialista Costantino Maes, descrivendo la Roma dei primi dell’Ottocento: «Un vero e sudicissimo letamaio. Un quindici centimetri di fango, di sterco, di polvere e di ogni altra lordura era l’altezza normale dello strato sudicio da per tutto. Una tinta giallognola di escrementi equini smaltava poi perpetuamente e ovunque il suolo pubblico. Né poteva la bisogna andare altrimenti. La spazzatura delle vie si faceva ogni otto giorni e soltanto dai galeotti, col piede stretto da catena rialzato al fianco, che si agitava con rumore per le strade all’alba svegliando i pacifici cittadini. Servizio di nettezza per le case non v’era neanche per sogno: quando pei cortili e per le case la mondiglia arrivava al ginocchio, sul fare della sera la fantesca usciva con un canestrone fatto apposta, chiamato canestro della immondezza, che si reggeva in mano per una sola ansa, e lo rovesciava al primo cantone o nella più prossima piazza. Questi mucchi di immondezza rimanevano lì ad imputridirsi al sole o fradiciarsi all’acqua per molti giorni, spandendo per un raggio considerevole intorno un tanfo ributtantissimo, brulicando di vermi e con qualche carogna di cane o di gatto ucciso dalla ragazzaglia a colpi di sasso. Solo quando i mucchi gettati dalle serve giungevano alla conveniente altezza di un bel monticello, veniva il carretto della immondezza a trasportarli via». E non è da dire che Roma facesse caso a sé: in tutt’Italia, in tutt’Europa era lo stesso «vero, sudicissimo letamaio».

Sempre senza contare i tributi del duo Bassolino&Iervolino che riuscirono a precipitare Napoli ai tempi di Costantino Maes, dovrà riconoscere, caro Mastrangelo, che nonostante l’aumento demografico, l’industrializzazione, il benessere e dunque il vertiginoso aumento della «mondaglia», non siamo poi messi così male.

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