Cervelloni che scoppiano: la matematica fa male

Da Mimault che sparò ai suoi studenti sino alla fuga di Majorana: un saggio racconta tutte le stranezze dei geni vittime della follia

Cervelloni che scoppiano: la matematica fa male

Non solo gli inquisitori e i cacciatori di streghe: anche i lumi della scienza hanno i loro scheletri nell’armadio. E non metaforicamente, visto che il cammino del progresso ha lasciato alle sue spalle caterve di cadaveri. Con buona pace degli apologeti della ragione, la storia della scienza somiglia infatti più a un romanzo criminale che a una serena evoluzione del pensiero. Dietro invenzioni, esperimenti e scoperte si muovono spesso meccanismi tragici e personaggi sull’orlo di una crisi di nervi, mentre i laboratori si trasformano in un macabro teatro di invidie, gelosie e rancori che portano alla follia. Per quanto sia assurdo, pochi interpreti si calano nel ruolo di attori involontari di un libro giallo meglio di certi ingegni premiati dal genio e dal talento, ma insidiati da irrazionali patologie e fisime immaginarie. Forse perché la ricerca della verità e lo studio dei misteri dell’universo sono sfide eroiche destinate talvolta al disincanto, a polemiche feroci o a febbrili rivalità; fatto sta che il censimento di inventori, matematici e scienziati passati a miglior vita in modo violento dimostra che una formula chimica, un brevetto conteso o un’equazione discussa possono essere motivi validi per uccidere o suicidarsi. Proprio come l’amore, il denaro, la religione o il potere.

Il repertorio delle vittime della ricerca scientifica è sterminato. Prova a farne ora un regesto aneddotico Pierre Zweiacker, docente di fisica presso l’Università di Losanna, che in Morti di scienza (traduzione di L. Giordano, DeriveApprodi, pagg. 264, euro 18) passa in rassegna vicende più o meno note in cui la scienza è stata drammaticamente a braccetto con la morte. Molti ricordano il caso di Ipazia, l’astronoma e filosofa alessandrina del IV secolo, uccisa barbaramente da una folla di monaci cristiani in preda al fanatismo, o quello degli scienziati che non sfuggirono al Terrore rivoluzionario, come il marchese di Condorcet e Lavoisier. Quest’ultimo, padre della chimica moderna, venne giustiziato nel 1794: il presidente del Tribunale Rivoluzionario, prima di mandarlo alla ghigliottina, sentenziò: «La Repubblica non ha bisogno di sapienti».

E tuttavia le vittime della scienza non persero la vita solo a causa delle loro «scandalose» ricerche o per l’intransigenza con cui difesero la libertà del pensiero dagli oltraggi della politica o dai settarismi della religione. In molti casi, sono fatti privati, contese di gruppi ristretti, paranoie individuali a macchiare scoperte e intuizioni col sangue. Uno dei pionieri della trasmissione telegrafica, il francese Louis-Victor Mimault scaricò nel 1886 la rabbia per il successo arriso al brevetto del suo antagonista, Emile Baudot, sparando all’impazzata su un gruppo di studenti e l’anno dopo uccidendo a colpi di rivoltella il direttore della scuola di telegrafia di Parigi. Altri - la maggioranza -, incapaci di vendicarsi sugli altri, rivolsero contro se stessi le proprie frustrazioni: l’inventore della rete telegrafica, Claude Chappe, reagì al disinteresse di Napoleone per le sue innovazioni gettandosi in un pozzo a Parigi nel 1805. Più raffinata e lugubre fu invece la soluzione adottata da Alphonse Penaud che mise fine ai suoi giorni dopo aver invano chiesto al ricco collega Henri Giffard un aiuto economico per realizzare i propri progetti da precursore dell’aviazione. Prima di suicidarsi, apparecchiò una piccola bara con dentro i suoi disegni e la mandò al suo mecenate mancato, che annientato dal rimorso e dalla depressione decise di farla finita, concedendo a Penaud questa postuma soddisfazione.

Tocchino ferro gli amanti delle scienze: è un dato inconfutabile, però, che il suicidio rappresenti spesso una tragica tentazione per cervelli abituati a dosi esiziali di calcoli di algebra, fisica o meccanica. Tralasciando il misterioso caso di Ettore Majorana, il Novecento è pieno di menti geniali che sprofondano negli abissi della psiche o finiscono, per inseguire impossibili teoremi, nel triste crepuscolo dell’alcol o del manicomio, come accadde a Renato Caccioppoli (qualcuno avrà visto il bel film che Mario Martone ha dedicato alla sua figura, Morte di un matematico napoletano).

Si suicidò, a trentun anni, Yutaka Taniyama, rincorrendo forse congetture o problemi indecifrabili: un atto inspiegabile anche per lui, che prima di morire confessò in una lettera che il suo gesto «non è il risultato di un incidente particolare, né di un problema specifico». Che sia la matematica a far male alla salute? - si chiede Zweiacker nel suo libro. Chissà: di sicuro, almeno in questo caso, ci fu anche il suicidio della fidanzata dello scienziato giapponese. È nociva, come il fumo, anche la matematica passiva?

Il punto (e il paradosso) è che più ci si affida alle possibilità della ragione, più si rischia di cadere nell’ossessione e nell’irrazionalità: manie e fissazioni sembrano un castigo simile a una legge del contrappasso dantesca. Kurt Gödel, l’ideatore dei teoremi di incompletezza matematica, pilastro della logica moderna, visse la propria esistenza schiacciato da ipocondrie e disturbi, terrorizzato dall’incubo di essere avvelenato e scelse infine di morire di fame. Con la stessa lucida determinazione, quattro secoli prima, l’eclettico scienziato rinascimentale Gerolamo Cardano aveva deciso di darsi la morte.

Era convinto di possedere doti da veggente grazie alla sua arte di compilatore di oroscopi. Per sé aveva previsto la fine a settantacinque anni. Giunto a questa età, scrisse la propria autobiografia e si lasciò morire per dimostrare la propria infallibilità. E che nessuno parli di suicidio...

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