«Che bello quando il Vaticano era un borgo»

È giornalista professionista dal 1946 e conserva ancora la tessera della Sala Stampa vaticana con data 1951, che porta la firma dell’allora Sostituto alla Segreteria di Stato Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Benny Lai è il decano dei vaticanisti e ancora oggi bazzica la Sala Stampa e chiacchiera con qualche cardinale al quale dà del tu, avendolo conosciuto parecchi decenni orsono. Il suo primo libro sui segreti della Santa Sede gli fu commissionato da Leo Longanesi e uscì nel ’61. Racconti vaticani è il titolo del suo nuovo lavoro (Edizioni Fede & Cultura, pagg. 166, euro 11), a metà strada tra la cronaca e la letteratura, dove sono descritti episodi e aneddoti di un Vaticano scomparso.
Sei il decano dei vaticanisti. Ma è vero che dobbiamo a te l’invenzione della parola «vaticanista»?
«Era il 1950, vivevo a Roma, non avevo soldi, e non avevo ancora un giornale dove lavorare. Federico Alessandrini, direttore del Quotidiano, il giornale dell’Azione Cattolica e poi vicedirettore de L’Osservatore Romano, mi notò e mi chiese se mi volevo occupare di Vaticano. Gli dissi che io non sapevo neanche che cosa fosse e che per me, laico, i preti erano “bacherozzi”. Ma poi rimasi affascinato da quel mondo e non me ne sono più staccato. Cominciai a dire che i giornalisti che seguivano il Vaticano erano “vaticanisti”, senza sapere che lo stesso termine era stato usato molti anni prima da Crispi per definire coloro che abitavano nei palazzi vaticani».
Ti piaceva fare il vaticanista?
«Ero giovane, fino a quel momento avevo seguito la politica a Montecitorio. Mi resi conto che la Sala Stampa vaticana chiudeva alle due del pomeriggio. Ciò significava avere sempre le sere libere. E per me che non ero certo immune da certe tentazioni delle nottate romane, andava benissimo».
Com’era il Vaticano che hai conosciuto agli inizi?
«Molto diverso dall’attuale. Era un vecchio borgo romano, dov’erano possibili i contatti umani. Si andava a prendere il caffè insieme ai monsignori della Segreteria di Stato. Non c’erano tante tessere, passi, controlli, gendarmerie. E noi corrispondenti accreditati sempre presenti, eravamo appena quattro o cinque».
Nel libro c’è un racconto dedicato ai «rumorosi» gatti vaticani...
«Sì, un giorno vedemmo i gendarmi che catturavano tutti i gatti che capitavano loro a tiro e li rinchiudevano nei sacchi. Scoprimmo che i loro miagolii e i loro accoppiamenti davano fastidio alle suore dedite alla cura degli arazzi in Vaticano, che la notte non riuscivano a dormire. Così vennero... deportati!».
Un aneddoto poco conosciuto, possibilmente dissacrante?
«Posso raccontare ciò che accadde in Sala Stampa vaticana al momento dell’annuncio della morte di Giovanni XXIII, il 3 giugno ’63. Fuori, nella piazza e in tutto il mondo la gente seguiva con trepidazione, piangeva, pregava. Noi, in Sala Stampa vaticana eravamo rinchiusi lì da tre giorni: avevamo bivaccato ininterrottamente, giorno e notte. L’annuncio fu accolto da un grido liberatorio, motivato dalla carica e dalla tensione accumulata in quella clausura».
E il Vaticano di oggi, com’è?
«Molto diverso, molto più burocratico e asettico».
Come reagivano nei sacri palazzi d’allora ai vostri scoop?
«Una volta, negli anni Cinquanta, un nostro collega scrisse che il Papa alle ore 17, quando era a Castel Gandolfo, sentiva passare il trenino e si affacciava perché nel silenzio questo rumore si notava.

Quando Pio XII lesse il giornale reagì: “Come oggi sanno questo particolare possono sapere anche altri particolari della nostra politica e diplomazia: puniteli!”. E fummo puniti, ci tolsero le sigarette, che prima ci davano di tanto in tanto».

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