«Che business insegnare l’italiano agli americani»

Ecco un italiano felice che ha avuto il coraggio d’investire sull’Italia, anzi sull’italiano. La crisi economica, la recessione, lo spread e il calo del Pil gli fanno un baffo. I suoi affari vanno a gonfie vele: 30 per cento d’incremento annuo. Perché l’italiano, inteso come lingua tanto bistrattata in Italia, è invece amatissimo dall’altra parte dell’Oceano Atlantico, dove ormai da molto tempo non viene più associato a pizza, brillantina e mandolino: il numero degli studenti che lo imparano nelle università statunitensi è cresciuto del 60 per cento in otto anni; con spagnolo e cinese è la lingua straniera più studiata negli Usa; a fine 2011 il New York Times ha inserito i Canti di Giacomo Leopardi fra i 10 libri da non perdere; Roma contende a Parigi e a Londra il primato di destinazione preferita dai turisti americani.
Certo, Massimo Veccia, fondatore e titolare di Learn Italy, l’unica scuola privata d’italiano aperta da italiani negli Stati Uniti, ha dovuto metterci molto del suo per arrivare dov’è arrivato, e cioè a Midtown, nel cuore di Manhattan, sulla 37ª Strada, fra Times Square e il Palazzo di Vetro delle Nazioni Unite. Innanzitutto un corso di tre giorni organizzato dall’Alitalia per superare la paura di volare, «anche se alla fine ho capito che il miglior ansiolitico sono i grandi rossi toscani e veneti serviti in business class durante il volo». Poi un viaggio a New York almeno ogni 40 giorni, che lo costringe a separarsi per due settimane dalla compagna Roberta, direttrice dei corsi di lingua tenuti anche a Roma, Frosinone, Pistoia, Siena, Milano e Torino, e dalla figlioletta Giulia, percorrendo ogni anno 130.000 chilometri in aereo, l’equivalente di tre giri del mondo (abbondanti) sul circolo dell’equatore. Infine la resistenza fisica: all’alba di oggi, tanto per dire, nonostante la febbre è salito in taxi a Frosinone, dove abita; alle 9.30 s’è fermato per quest’intervista nel tragitto verso Fiumicino; alle 14.40 sarà già sul volo Az 610 che lo porterà negli Usa e, dopo 9 ore e 55 minuti, alle 18.35 locali sbarcherà all’aeroporto Jfk in tempo utile per partecipare alle 21 a una cena di lavoro al Bistro Milano, sulla 6ª Strada.
Ma l’amore per la lingua di Dante sta ripagando con gli interessi questo romano iperattivo, nato nel 1963, figlio di un funzionario della presidenza del Consiglio, oggi defunto, e di una maestra. La sua scuola non si rivolge soltanto ai 71.849 italiani stabilmente residenti a New York, bensì a tutti gli stranieri. Ha già aperto una sede distaccata a Hasbrouck Heights, nel New Jersey, ed entro fine anno ne inaugurerà un’altra a Miami, in Florida. Poi sarà la volta di Toronto, in Canada. Tra i suoi allievi ci sono tre giornalisti del New Yorker che presto diventeranno sei. Ha dato lezioni anche a George Hirsch, 75 anni, fondatore del New York Magazine, 1,8 milioni di lettori, oggi direttore editoriale di Men’s Health. Le pubblicità di Learn Italy figurano tanto sulle fiancate dei bus della Mta quanto sulle pagine del Jewish Voice, il settimanale della comunità ebraica. Veccia ormai è così popolare nella Grande Mela che da due anni la Columbus citizen foundation lo invita a sfilare sulla 5ª Strada nella parata del 12 ottobre in onore di Cristoforo Colombo, manco fosse la reincarnazione del navigatore genovese che scoprì l’America.
Nonostante un diploma conseguito al liceo linguistico e i numerosi corsi di perfezionamento in inglese e francese sostenuti all’estero, Veccia credeva d’essere nato per fare il musicista di pianobar e il cantante. Conserva ancora racchiuso in una teca La ragazza di Berlino, un 45 giri di vinile inciso per la Fonit Cetra e divenuto ciò che il Gronchi rosa è per la filatelia: stampato in migliaia di copie, fu misteriosamente mandato al macero e oggi se ne trova in vendita solo un esemplare su Ebay. A puntare per primo sul giovanotto fu il proprietario del Piper di Roma, Alberigo Crocetta, l’ex marò della Decima Mas di Junio Valerio Borghese che scoprì Patty Pravo, Renato Zero, Mia Martini e Mal dei Primitives.
Crocetta, che aveva abbandonato la professione di avvocato per diventare produttore discografico e talent scout, fece esibire Veccia nel 1983 all’Open Gate, un altro locale notturno di sua proprietà, dove organizzava il Festival del pianobar. Su 2.000 pianisti partecipanti al concorso, il giovanotto si qualificò primo. Carriera assicurata. Locali notturni, hotel e club di Montecarlo, Ginevra, Francoforte, Monaco, Vienna, ma anche di Miami, si contendevano le sue mani e la sua voce. Primo a esibirsi nell’ex Ddr, al Café Prag di Dresda, dopo la caduta del Muro di Berlino. Primo a suonare nel viaggio inaugurale del rinato Orient Express. Primo a far la spola tra Calais e la banchisa polare sulla Mermoz, «l’unica nave da crociera rimasta alla Francia, perché si diceva che il governo di Parigi avesse stretto un patto segreto con quello di Roma, “a voi il mare, a noi le stelle”, e dunque all’Italia la Costa e la Msc, alla Francia il programma Ariane e i lanci di razzi dal centro spaziale di Kourou, nella Guyana». Infine due Cd, Valerie e Il respiro del mondo, registrati per il mercato tedesco con la Bmg Ariola, oggi Sony. «Ebbero un successo di vendite ragguardevole, che in Italia mi avrebbe portato di botto in cima alla hit parade, ma in Germania non era sufficiente per imporsi». Fu la sua fortuna: da lì nacque l’idea di esportare l’italiano parlato anziché cantato.
In che anno comincia l’avventura?
«Nel 2007, quando andai in Canada. Purtroppo a Toronto c’era già un monopolista delle scuole private. Qualche mese dopo portai la famiglia in vacanza al Waldorf Astoria di New York. Prima di partire chiesi a Tamzin, la mia segretaria nata in Cornovaglia: vedi se a Manhattan c’è qualcuno che posso incontrare per capire meglio come muovermi. E lei mi procurò un contatto con Sergio Stefani, un bolognese ultrasettantenne che da sempre dava lezioni di italiano ai cantanti lirici del Metropolitan e d’estate li accompagnava in vacanza nel nostro Paese, lavorando al perfezionamento della loro dizione insieme col famoso soprano Martina Arroyo. E qui accadde un miracolo».
Cioè?
«Mi presentai a Stefani. Che dopo un po’ mi chiese: “Come hai detto che ti chiami? Veccia? Pensa, conoscevo un Francesco Veccia che 45 anni fa lavorava con me a Roma, in piazza Cavour”. Mio padre! Stefani conservava ancora una cartolina che papà gli aveva spedito a Boston dalla capitale. Oggi è il nostro direttore didattico. Mi ha concesso l’utilizzo del suo metodo, chiamato L’italiano a modo mio».
Che modo è?
«Bypassa i tempi dei verbi che gli americani non riescono a usare. Trapassato prossimo, trapassato remoto, congiuntivo... Certe forme è proprio impossibile fargliele entrare in testa, non le capiscono. Il tutto è complicato dal fatto che nella stessa classe abbiamo americani, italiani, ispanici, orientali. Ops! Cancelli “orientali”. Metta “asiatici”».
Perché?
«“Orientali” negli Stati Uniti non si può dire, non è politicamente corretto. Neanche “occidentali” si può dire. Equivale a “negri” in Italia».
Comunque mi pare che col metodo Stefani ai suoi allievi la faccia facile.
«Facile? Siamo gli unici negli Usa riconosciuti dall’Università per stranieri di Siena e dal ministero degli Esteri italiano per l’erogazione dei corsi Ditals che abilitano i docenti stranieri a insegnare l’italiano e dei corsi Cils che consentono agli studenti stranieri di accedere alle facoltà universitarie italiane».
Che materie insegnate?
«Italiano e cultura italiana, intesa come letteratura, arte, storia. Ma anche cinema, musica, tradizioni, enogastronomia».
Gli studenti chi sono?
«Il 30 per cento sono figli o nipoti d’immigrati italiani. Il 70 per cento professionisti dell’editoria, della pubblicità, della moda e dello spettacolo affascinati dall’italian style. Gli americani ci amano. Amano come ci vestiamo, come mangiamo, come viviamo».
Per quale motivo?
«Matilda Raffa Cuomo, moglie di Mario e madre di Andrew, governatore dello Stato di New York sulle orme del padre che lo fu per tre mandati, dice che c’è qualcosa di veramente bello nell’anima, nello spirito degli italiani: a prescindere da chi siano, da dove risiedano, da che mestiere svolgano, cercano sempre di fare del loro meglio. È questo che le insegnò suo padre: “Fa’ sempre del tuo meglio”».
Quanti sono i suoi allievi?
«Dai 200 ai 300 l’anno. Frequentano per tre ore, due giorni la settimana».
Pochino.
«In Italia i corsi di lingue durano almeno 60 ore. A New York al massimo 21 ore. Poi gli americani si stufano. Magari s’iscrivono nuovamente l’anno dopo, ma oltre quel tetto non vanno, si deconcentrano. Io li sto portando a 42 ore».
Presumo che siano attratti, oltre che dall’italiano, anche dalla coordinatrice della scuola, Maria Martyak, a giudicare dalla foto che ho visto sul sito di Learn Italy.
«Maria ha 26 anni, è nata nel New Jersey e, tra genitori e nonni, ha nelle vene i quattro quarti giusti: un quarto di russo, un quarto di portoricano, un quarto di spagnolo e un quarto di americano. È alta come me, e io sono un metro e 84. Quando ci parlo insieme, cerco di non guardarla... S’è laureata alla New York University».
Gli insegnanti chi sono?
«C’è Vincenzo Enea, biologo molecolare che insegna alla New York University e alla Rockefeller University. C’è Olivia Poli, laureata all’Università di Firenze, giornalista che ha lavorato per Sky Tg24 e ora collabora con La Stampa. C’è Salvatore D’Alia, che ha curato produzioni televisive del Don Giovanni di Mozart e dei Carmina Burana di Orff per vari network, fra cui Nbc e La7. C’è Stefano Baldasseroni, che è stato per cinque anni il batterista dei Grandmothers, un gruppo rock fondato da alcuni musicisti che facevano parte dei Mothers of Invention di Frank Zappa. C’è Andrea Roccella, un attore catanese che nelle letture dantesche è più bravo di Roberto Benigni».
Da dove vengono gli italiani di New York?
«Dipende dalle zone. Da Lazio, Lombardia e Veneto quelli di Manhattan. Da Campania e Sicilia quelli di Brooklyn e del Queens. Da Lazio e Abruzzo quelli di Long Island».
Resiste Little Italy?
«È un’Italia sempre più piccola, ridotta ormai alla sola Mulberry Street, dove ci sono ancora molti ristoranti e pizzerie gestiti da napoletani, siciliani e calabresi di antica tradizione. I loro figli preferiscono aprire locali al Greenwich Village o a Midtown».
Come sono visti gli italiani dai newyorchesi?
«Bene, nonostante lo sputtanamento propagandistico dei connazionali trasferitisi nella Grande Mela, che provano un piacere sadico nel parlar male del loro Paese».
Ci considerano ancora tutti mafiosi?
«Quello è un pregiudizio che resiste soltanto in Tv, dove si vedono reality show come Jersey Shore, trasmesso da Mtv, popolato da ragazzi italoamericani sboccati e amorali. Almeno The Sopranos era un serial ben confezionato».
Che cosa le piace di più dell’America?
«La gente. Tifa per te, per quello che fai. E sorride. Non è poco. In Italia non sorride nessuno».
Secondo lei perché il latino portato da Giulio Cesare fino in Britannia è morto, mentre il mondo intero parla l’inglese, una lingua tutto sommato dozzinale anche se molto pratica?
«Perché l’impero britannico ha saputo convertire con amore i popoli alle proprie abitudini. Non c’è un motivo, men che meno climatico, perché alle 5 del pomeriggio a Malta ancor oggi si beva il tè».
Come mai Learn Italy si fregia del titolo «gay-friendly»?
«Bella domanda. Io non sono gay».
Nessuno è perfetto.
«Il fatto è che alcuni corsi li teniamo in un ristorante che si chiama Etcetera Etcetera, molto amato dai gay».
Però sul sito non scrive che siete anche «etero-friendly». Discrimina?
«Ha ragione».
È d’accordo nel mantenere docenti italiani in un centinaio di Paesi del mondo, dall’Iran all’Uruguay, che percepiscono dal nostro ministero degli Esteri tre o quattro volte lo stipendio dei loro colleghi rimasti in patria?
«No. A noi, che facciamo lo stesso lavoro di diffusione della cultura italiana, non dà niente nessuno. Non so come sia la situazione oggi, però mi risulta che a questi signori, in passato, ogni cinque anni di servizio all’estero venissero computati ai fini previdenziali come se fossero otto, per cui con una laurea riscattata e vent’anni di lavoro andavano in pensione. C’erano professori di ginnastica assegnati all’Asmara o ad Addis Abeba».
Come se la cavava in italiano a scuola?
«Bene. Sempre dal 7 all’8».


Mi fa un esempio di sìnesi?
«Non so che cosa sia».
È una costruzione a senso che accorda un sostantivo singolare con un verbo plurale. Esempio: una decina di alunni saranno bocciati.
«Lo sarò anch’io?».
(583. Continua)
stefano.lorenzetto@ilgiornale.it

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