Cultura e Spettacoli

Ma che meraviglia «Walkiria» di Vick

da Lisbona

Walkiria, anno zero. Graham Vick, regista, ci fa il dono miracoloso di poter vivere un capolavoro del passato, rivestito fino al seppellimento da migliaia di interpretazioni, tradizioni, ribellioni, come completamente nuovo. Via le poltrone dalla platea, nel fondo della quale sta in basso l'orchestra, noi tutti nei palchi o sulle gradinate messe in palcoscenico, affacciati sul nudo pavimento di legno; niente scenografie, soltanto oggetti d'attrezzeria: un grande tronco, col focolare e la spada confitta che soltanto l'eroe predestinato saprà liberare, per l'amore incestuoso ed intensissimo dei fratelli da cui nascerà la stirpe eroica dei Walsi; un bigliardo in cui è intento, come in un gioco fuori del tempo, Wotan, dio costretto ad imporre una legge che non risponde al suo cuore, qualche poltrona. E poi lo spazio, riempito dai movimenti, dai gesti, dagli sguardi dei formidabili cantanti attori, in abiti moderni ma funzionalissimi a ciò che sono e compiono.
Il mito liberato dalle scorie della storia.
Se Siegmund, eroe fuggiasco capostipite dei leggendari eroi germanici è sempre stato un ariano di bionda chioma o parrucca, qui è un grosso negro meravigliosamente impacciato, animalesco nell'istintività e nella toccantissima, indifesa tenerezza. Se la cavalcata delle Walkirie, che trasportano i corpi degli eroi morti sul campo di battaglia, era un momento di spettacolo eccitante, ora la famosa musica dà celebrazione al sacrificio dei morti in ogni guerra, alcuni risvegliati dalle donne in nero, altri portati via in sacchi con cerniera a lampo come cadaveri da persone comuni che vanno a riprendersi i loro morti; e il momento è d'un'altezza morale impressionante. E l'addio di Wotan alla figlia Brunhilde che deve punire isolandola sulla montagna protetta da un cerchio di fuoco supera ogni patetismo, in una delicata e selvaggia tensione amorosa, fino al lungo bacio dalla cui emozione fisica ancora a lungo il padre risente. Poi, raccoglierà gli indumenti che Brunhilde ha piegato ordinatamente accanto al sacco in cui è stata chiusa e li porterà via con sé come si porta un bambino. L'azione si svolge ad un niente da noi, non c'è istante in cui potremmo non credere ai loro passi, ai loro occhi, all'intenzione e al suono d'ogni loro sillaba. Tutto nasce dalla gloriosa e qui accessibilissima partitura di Wagner, che Vick, mi si dice, sapeva cantare nelle prove. Nota su nota, nelle parti di tutti.
La prodigiosa Susan Bullock, Brunilde dalla dizione adamantina; Mikhail Kit Wotan d'umanità perplessa e di voce solenne; Roland Samm, Siegmund: Judit Németh, Fricka; Maxim Mikhailov, Hunding; e tutti gli altri (non vorremmo cambiarne nessuno neanche se al loro posto arrivassero fenomeni vocali e attorali famosi) sono stati professionalmente sostenuti dalla direzione musicale di Marko Letonja; Timothy O'Brien ha firmato l'immagine scenica e i costumi; Ian Spink la coreografia; Giuseppe di Iorio le luci.

Ciò accade al Teatro San Paolo di Lisbona, meritevole d'un pellegrinaggio a cui dovrebbero partecipare dirigenti, artisti e sindacalisti dei teatri italiani.

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