«Chi esporta non scende in piazza»

«Le liberalizzazioni? Sono dieci i settori su cui intervenire: dall’energia alle banche, dai trasporti alle professioni»

Angelo Allegri

da Milano

«Scorciatoie non ce ne sono. Per rimettere in carreggiata il sistema industriale bisogna impostare un programma di lungo periodo. E non sarà uno scherzo: ci metteremo forse una decina d’anni, visto che paghiamo errori ventennali». Giovanni Cagnoli, 46 anni, è l’amministratore delegato di Bain & Company in Italia, uno dei colossi della consulenza d’impresa internazionale (350 i professionisti solo nella Penisola).
Vent’anni di errori. Addirittura?
«Guardi alle conseguenze: dal 2003 abbiamo avuto condizioni macroeconomiche difficilmente ripetibili. Tassi di interesse al minimo storico; uno scenario geopolitico che, nonostante l’Irak, è stato favorevole; lo straordinario sviluppo di interi continenti come l’Asia. Non siamo stati capaci di approfittarne: il Pil mondiale è cresciuto del 3,5%, l’Italia è stata ferma o quasi».
Il motivo?
«Tutto sommato semplice: abbiamo convogliato attenzione e risorse ai settori meno esposti alla concorrenza internazionale che hanno beneficiato di un ambiente protetto. L’effetto: chi è esposto alla competizione ha avuto costi più alti senza poterli scaricare sui prezzi. Tenendo conto, tra l’altro, che noi non siamo certo la Germania».
E cioè?
«Voglio dire che anche in Germania devono fare i conti con costi alti e inefficienze. Ma là c’è un gruppo di una trentina di colossi industriali che con il loro livello di competitività, con la loro tecnologia e l’export sono in grado di trainare il sistema. In Italia la struttura industriale è ben diversa, molto più fragile e “low tech”. Loro le inefficienze forse possono permettersele. Noi no».
E allora?
«Allora bisogna darsi da fare per smantellare i lacci che ci frenano. Senza dimenticare che a differenza di molte categorie protette, gli imprenditori che esportano e che tengono davvero in piedi il Paese non possono scendere in piazza contro l’industria cinese».
In concreto?
«In concreto vanno bene interventi su cuneo fiscale e liberalizzazioni. A condizioni di farli come si deve».
Come?
«Prendiamo il taglio del cuneo fiscale. Ottima idea con un difetto: è indifferenziato. L’obiettivo dovrebbe essere quello di premiare chi è più esposto al mercato. Certo è tecnicamente difficile, ma da questo punto di vista ci si può porre una domanda: se è augurabile che il taglio venga esteso al settore creditizio come vuole l’Abi».
E le liberalizzazioni?
«Si è iniziato con tassisti notai e farmacisti. E già le resistenze fanno intuire quanto sia difficile sacrificare i privilegi di pochi all’interesse generale. Ma per quanto riguarda, per esempio, i notai c’è poco da fare. Le cifre parlano».
E che cosa dicono?
«L’onere per il sistema economico dei servizi di tipo notarile è di circa 6 miliardi l’anno. Il valore aggiunto che il sistema ne ricava è quello? O, come io penso, e anche approfittando della tecnologia, potrebbe essere ridotto almeno di due terzi? Certo dopo i notai bisogna passare alle liberalizzazioni vere».
Quali?
«Uno studio recente ha individuato dieci macrosettori su cui è urgente intervenire: l’energia, che è indispensabile liberalizzare nella maniera più ampia; le grandi reti di trasporto e infrastrutture; banche e assicurazioni; il commercio; tutte, o quasi, le professioni. Infine il comparto più difficile: la pubblica amministrazione. Poi, naturalmente, tocca agli imprenditori».


Per loro le priorità quali sono?
«Crescere in dimensioni per affrontare i mercati; puntare sulla ricerca delle nicchie più favorevoli attraverso innovazione e differenziazione; affrontare con rigore il tema della seperazione tra proprietà e management».

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