Chi fischietta rasserena anche te, digli di continuare

Ricordi, caro Paolo? Una volta era facilissimo, girellando a piedi, imbattersi in gente che fischiettava gaiamente. Canzonette, romanze, opere liriche, nenie, tutto e ancora di più. Nella memoria, erano, quelle, persone allegre e spensierate. Da decenni e, venendo a noi, maggiormente, così non è e, quando mi capita (perché io continuo a fischiare. O se continuo...), mi accorgo di essere guardato con sospetto. Cupezza? Tristezza? Non so. Quel che so è che un augurio da fare col cuore a tutti è che nel 2011 abbiano mille ed una ragione per ricominciare, felici, ad andare a zonzo, proprio e di bel nuovo fischiettando.

Ma lo sai che hai ragione? Davvero, nessuno più fischietta in pubblico. Trattare l’argomento qui, in questo «Angolo» così austero, dove si affrontano i più spinosi problemi del mondo e si cerca di dar risposta alle preminenti questioni esistenziali - se a Giancarlo Tulliani gli si sia ingolfata la Ferrari, l’apporto del pensiero e dell’azione della D’Addario al progresso civile, il contributo di Belén alla crescita culturale della nazione e quello di Nichino Vendola alla «sessuazione di un processo elettorale», tanto per capirci - parrebbe fuori luogo. Ma così non è perché il tema è e resta scottante. Certo saprai, caro Mauro, che qualche anno fa si tenne a Tubinga il sesto congresso internazionale sul fischiettamento, «Sechste umanistiche pfeifen Kongress» mi pare si scriva. Nuovamente chiamati a sciogliere l’annoso dubbio se il fischiettare in pubblico sia segno di spensierata gaiezza o di maleducato sprezzo del prossimo, i venerati congressisti risposero: boh, indovinala grillo. Il dubbio, quindi, permane ed è ciò che rende in noi, sempre vogliosi di «fare chiarezza», degno d’attenzione il tema sollevato. Perché, vedi, pur non avendo dubbi che il tuo fischiettare appartenga alla prima categoria, devo pur tener conto che la versione grossolana ma efficace di «infischiarsene», farsene un fischio o fischiettio, è «fregarsene». E altro non serve aggiungere. Quando ogni fischiettatore era accomunato a Bertie Wooster, fischiettatore recidivo, associato alla signorilità di Brandings Castle e all’impeccabilità di Jeeves, fischiettare era addirittura segno di distinzione. Ma chi legge più, oggi, Wodehouse? Quando poi il Festival di Sanremo era televisivamente in bianco e nero e i giornali scrivevano che i motivi sentiti la sera prima erano fischiettati il giorno appresso dai garzoni dei fornai, fischiettare divenne segno di democratico brio proletario e dunque di fiducia nel sol dell’avvenir. Ma oggi, dove lo trovi più un garzone di fornaio che in sella alla bicicletta consegna fischiettando gli sfilatini? Insomma, caro Mauro, occhio al tuo vezzo di fischiettare perché corri il rischio d’essere equivocato. Guardati intorno: altro che assenza di fischiettamenti. Non si vede un sorriso che è uno. E non mi dicano che è colpa della crisi, della quarta settimana a stecchetto, delle alluvioni nel Luang Prabang, del riscaldamento globale e tutte quelle balle là. Nel mio bighellonare m’imbatto per lo più in uomini, donne e bambini ben pasciuti, ben vestiti quando non «griffati» da capo a pie’. Però, tutti accigliati. Chissà, potrebbe essere espressione - tu cosa ne pensi? - d’uno schifo per il contatto umano, ovvia conseguenza del montante, del travolgente comunitarismo virtuale dei Facebook et similia.

Ma lo sai, caro Mauro, che il 25 dicembre scorso sono partiti 495 milioni di sms, di messaggini? Nemmeno gli auguri di Natale si fanno più a voce, direttamente. E ti meravigli che mentre fischietti, roba dei tempi che Berta filava, di quando buongiorno significava davvero buon giorno (questa l’ho rubata da Zavattini), tu venga guardato con sospetto?
Paolo Granzotto

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