Chi tocca Di Pietro muore: i folgorati

Quasi tutti gli uomini scelti dall’ex pm oggi sono finiti nella polvere. Dall’amico Cianci all’alleato Veltri. Stessa sorte per Prodi e Veltroni. Anche Giulietti dice no all'Idv e va nel gruppo misto

Chi tocca Di Pietro muore: i folgorati

Roma - Il suo passato da tuta blu lo ha aiutato. Perito elettronico, l’emigrante ventenne Di Pietro s’è spaccato la schiena in Baviera a lucidar posate e sgobbare in falegnameria. Lui, un Cipputi qualsiasi con la valigia di cartone gonfia di canotte e ambizioni, lustrava forchette e cucchiai a suon di Sidol la mattina, troncava assi di legno con lame dentate il pomeriggio. Più avanti, politicamente ma non solo, avrebbe fatto lo stesso coi suoi compagni di strada: avrebbe dato splendore a vecchi arnesi di Palazzo per poi segarli, avrebbe aiutato amici per poi danneggiarli. Una cinica e spietata catena di montaggio del pulire e poi sporcare, del costruire e poi distruggere.

È stato così per Pasqualino Cianci, amico d’infanzia finito nella melma con una accusa di uxoricidio. «Ti difendo io», s’è subito lanciato in soccorso Tonino, toga sulle spalle perché ex magistrato. Peccato che appena accortosi che Pasqualino era spacciato, non solo l’ha abbandonato ma l’ha pure spinto più giù nel pantano, passando dalla parte dell’accusa. Un passo indietro: marzo 1998, l’astro calante della magistratura s’è già scaraventato in politica da un po’ ma il «mastro Geppetto» di Montenero di Bisaccia vuol farsi un partito tutto suo. E lo fa con un antico strumento degli affari pubblici: Elio Veltri, ex sindaco di Pavia, ex Psi, ex Pci, ex Dp, ex Pds, ex Democrazia e legalità. I due sono come Ric e Gian: inseparabili. Veltri riacquista luminosità e splendore. «Il Paese ha bisogno di lui» sentenzia l’Elio che di Tonino fa il portavoce. Ma poi la voce si fa stridula e a Di Pietro viene a noia. I bagliori seguenti sono soltanto per le scintille che fanno i due appena si toccano. Veltri si pente, sbatte la porta nel 2001 e appena può accusa il leader dell’Italia dei (dis)valori: «Pessima gestione del movimento, inadeguata scelta delle persone, incarichi dati a personaggi sballati» e chi più ne ha più ne metta. Segato dal partito, di Veltri rimangono i trucioli.

Analoga piallatura subita da Achille Occhetto, storico segretario della svolta Pci-Pds. Reduce dalla scuffia elettorale nel 1994, l’Achille s’è rifugiato nello scantinato della politica. Stufo delle ragnatele, si butta tra le braccia dipietriste nel 2004, ignaro che l’abbraccio sarebbe stato mortale. Con Tonino si presenta alle europee di quell’anno con una lista tutta nuova: Società civile-Di Pietro-Occhetto. Un flop: 2,1%. E di civile, nella successiva separazione tra i due, c’è ben poco. Occhetto fonda il Cantiere per il bene comune e da lì inizia la sua guerra contro Tonino sul fronte dei rimborsi elettorali: «S’è incamerato i denari anche nostri», l’accusa. Grane sul grano, insomma.

L’abbraccio con Tonino è di quelli che stritolano e così anche Akel politicamente muore, dopo una lenta agonia nella diatriba infinita del seggio Ue. Chi deve sedere a Strasburgo, visto che Di Pietro è intanto divenuto ministro? Occhetto o Beniamino Donnici? Di Pietro tifa Donnici e alla fine Occhetto rimane carbonizzato. Abbrustolito come un altro dipietrista «a tempo»: il baffuto Giulietto Chiesa, anch’egli imbufalito con l’Idv sulla questione dei rimborsi elettorali ed eletto a Strasburgo nella lista occhettian-dipietrista. Botte da orbi pure con lui, con tanto di reciproche querele. «Con quel figuro non voglio avere rapporti», ringhia Giulietto. Un anno fa la sentenza: Chiesa deve pagare al partito 600 euro quale contributo annuale dei deputati europei per la durata dell’incarico parlamentare. Scottato dal tocco dell’ex pm, è in pratica sparito. L’ultima opaca apparizione alle scorse Europee: candidato in Lettonia per la lista «Per i diritti umani in una Lettonia unita».

Della serie chi tocca Tonino muore. Pure al líder Massimo D’Alema non ha portato fortuna la liaison con Di Pietro. È stato lui a spalancargli le porte di Palazzo Madama quando, correva l’anno 1997, per il blindatissimo collegio del Mugello si doveva rimpiazzare il seggio lasciato vacante da Pino Arlacchi. Scontato tripudio. Ma ora D’Alema è l’ombra di se stesso, impallidito e spento, costretto a giocare dietro le quinte del suo pupillo Bersani.

Per non parlare di Prodi, l’uomo che l’anno prima gli aveva offerto il ministero dei Lavori pubblici e nel 2006 quello delle Infrastrutture. Di Pietro oggi, specie a sinistra, continua a fare il falegname nel cantiere della politica mentre il Professore è un Chi l’ha visto del Palazzo. Una delle sue ultime comparsate è stata a Bologna, in municipio, assieme a tre capi tribù africani che lo hanno vestito come un pagliaccio e incoronato loro rappresentante a Bruxelles.

Decisamente autolesionista, invece, Veltroni: è stato lui a siglare il patto con l’ex pm che, per tutta riposta, ha cominciato a divorargli il Pd. Pensava che l’alleanza con l’Idv l’avrebbe fatto brillare di più, invece a scintillare è soltanto Tonino. E Walter? Arrugginito. Come quei vecchi cucchiai della Baviera.

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