Quando poi inizia a parlare, è come se suonasse: veloce, malinconico, frequenti le pause. «Ogni tanto ho bisogno di riflettere», scherza. Di Slash si sa tutto perché ce l’ha scritto su ogni ruga: è uno dei chitarristi più famosi del mondo e il suo è rock sporco, influenzato da Jeff Beck, Jimmy Page, Michael Schenker, Ace Frehley. Ha dato ai Guns N’Roses i giri di Sweet child o’mine o Welcome to the jungle o November rain, insomma ha fatto la storia e s’è fatto tanta eroina fino a meritarsi un mini-defibrillatore impiantato vicino al cuore. Per dire. Sua mamma era l’amante di David Bowie e Pamela Courson, l’ultima compagna di Jim Morrison, è stata la sua baby sitter. A scuola picchiava tutti. Poi è diventato un’icona e un paio d’anni fa, lui con la sua tuba sopra i riccioloni neri, ha suonato persino con Bill Gates a una presentazione della Microsoft. «Due mondi a confronto, mi sono divertito da matti». E se oggi c’è qualcuno che rappresenta il rock ormai cinquantenne, è proprio lui: 45 anni, bella moglie, due figli, zero droghe, tanta ma proprio tanta libertà. Difatti ha appena inciso un cd (omonimo, edito da Roadrunner) che è un’enciclopedia: lui suona, d’accordo, e grandi come Iggy Pop, Chris Cornell dei Soundgarden, Ian Astbury dei Cult e Ozzy Osbourne cantano a modo loro, una canzone a testa, senza neanche un pizzico di uniformità. Selvaggi, appunto, e arrivederci alle buone maniere .
Lei è sempre esagerato, caro Slash, però stavolta non ha avuto mezze misure: ha scelto i più folli in circolazione.
«Ho fatto il contrario di quanto mi sia successo finora: ho chiamato i miei amici a cantare da me».
C’è persino Fergie dei Black Eyed Peas.
«Una delle migliori cantanti rock che abbia mai ascoltato perciò ho invitato anche lei. Prima ero io l’invitato a suonare sui dischi degli altri».
Anche di Michael Jackson.
«È mio l’assolo di Give in to me del 1990. E poi sono stato spesso ospite dei concerti del suo Dangerous Tour. Suonavo in Black or white. Lui era molto fragile e la sua fine mi ha sconvolto. Ma sono convinto che non abbia mai capito fino in fondo che cosa stesse facendo: era così etereo, così focalizzato solo sull’arte».
Anche lei ha vissuto la sua musica sulla pelle.
«Ho trascorso anni senza capire se fosse giorno o notte. Completamente sconvolto».
Lo era anche quando i Guns N’Roses hanno suonato a Torino nell’estate ’92. Almeno i medici del suo albergo dicevano così.
«Ah sì, non ricordo».
Ormai però accompagna a scuola i suoi figli.
«La prima volta è stata scioccante: io vestito in jeans e maglietta, tutto spettinato di fianco agli altri genitori incravattati per bene e pronti a correre in ufficio».
E lei cosa ha fatto?
«Sono corso a casa ad accendere l’amplificatore della mia chitarra».
È rimasto uno degli ultimi virtuosi.
«La chitarra ha salvato il rock finora, il computer e la tecnologia lo addomesticano. E ormai sono sempre meno i ragazzi che vogliono inventarsi uno stile e viverlo fino in fondo. Esser virtuosi significa anche soffrire, sa?».
Delle sue furiose liti con Axl Rose, cantante dei Guns N’Roses, si è
parlato per un decennio.
«So che mi odia, ormai voglio mantenere le distanze».
La considera «un cancro che è meglio rimuovere».
«Se ci incontrassimo e lui riuscisse ad accantonare questo astio, potremmo anche avere una discussione interessante».
Per una reunion dei vecchi Guns N’Roses sono stati offerti centinaia di milioni di dollari.
«Nel corso del nostro ultimo tour insieme, avevamo ogni tipo di lusso immaginabile. Ma questo non è servito a mantenere in piedi la band. Il problema non è il denaro e, per me, quel capitolo ormai è chiuso definitivamente».
Insomma, si accontenta di essere una leggenda.
«La parola leggenda fa ridere. Io sono uno che suona rock’n’roll perciò sono costretto a rimanere giovane per sempre: le leggende sono soltanto quelli che prendono la pensione».
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