Chiuso Canal Jimmy, Rcs affonda nella laguna tv

In fondo negli addii un po’ di polemica ci può stare. Canale Jimmy chiude e quindi, invece della normale programmazione, dal primo gennaio a tutto schermo si legge l’avviso: «Siamo morti dal ridere». E via l’elenco dei morti: la direzione, l’amministrazione, l’ufficio stampa eccetera, fino all’implorazione finale, un po’ santoresca: «Jimmy si spegne, non spegnetevi anche voi». A quanto si dice, i dirigenti hanno annunciato che prossimamente l’ex Jimmy dovrebbe cambiare completamente palinsesto e virare a una programmazione destinata in senso lato a un pubblico maschile. Insomma, per adesso un altro canale televisivo, canale 140 di Sky, peraltro uno dei più conosciuti visto che è apparso già nel 1997 nel bouquet di Telepiù, è sparito dopo aver lanciato, tanto per dire, serie come Nip/Tuck e Californication. Roba di (triste) contabilità televisiva. Ma ciò che conta è che Jimmy era di proprietà del gruppo Rcs, che si è affiancato a Digicast nel 2006 e poi lo ha controllato per intero. Rcs è ciò tanti chiamano ancora Rizzoli, insomma un impero editoriale, lo stesso del Corriere della Sera e di tantissime altre pubblicazioni, lo stesso che gestisce anche il canale Lei. Per farla breve, la chiusura (temporanea o definitiva) di Jimmy smentisce il solito luogo comune che riempie le bocche di chi non se ne intende: per fare tv bastano le palanche, è sufficiente aprire il portafogli e arriva anche lo share. Non è così, altrimenti sai quante televisioni ci sarebbero. Ci vogliono, certo, i capitali. Ma c’è bisogno anche di una serie concomitante di condizioni (le idee, il favore dell’opinione pubblica, la fortunata contingenza di mercato eccetera) che fuggono qualsiasi catalogazione qualunquista.
E gli esempi sono naturalmente tanti da riempire un libro.
L’ultimo è quello di Red Tv, la rete vicina al Partito Democratico, anzi soprattutto a Massimo D’Alema, che ha staccato i contatori ad agosto dopo poco più di un anno di stentata attività, mandando a casa tutti i giornalisti e il personale, nel più totale silenzio di tutti i politici «di riferimento», insensibili persino agli strilli (comprensibili) del vicedirettore Mario Adinolfi. Di certo, non era un progetto nato nel deserto, visto che persino Lucia Annunziata era autrice e conduttrice di una trasmissione. Semplicemente, la rete non ha soddisfatto le aspettative di un pubblico al quale erano stati promessi informazione politica, cultura e musica. Idem forse per All Music di proprietà del Gruppo L’Espresso, un’altra potenza del settore, che a ottobre del 2009 ha smesso di trasmettere e ha lasciato spazio sul canale 128 a Deejay Tv. E vita complicata ha avuto anche la Tv della Libertà, voluta fortemente nel 2007 dall’attuale ministro Michela Vittoria Brambilla e poi obbligata a interrompere le trasmissioni a fine luglio 2008, salvo poi ripartire su di un altro canale (prima era l’818, poi il 920) ma con meno forza propulsiva. In fondo questo è il destino di tanti canali sin dalla notte dei tempi della televisione libera, ossia dalla madre di tutti i fallimenti, la Italia Uno lanciata dall’editore Rusconi il 3 gennaio 1982 e finita dopo appena undici mesi.

E il funerale sarebbe stata colpa, si legge, dell’aggressiva politica pubblicitaria dei concorrenti (specialmente Canale 5) e anche della sottovalutazione iniziale degli astronomici costi di gestione degli impianti di trasmissione, a dimostrazione che, anche in questo campo, a far la differenza non sono soltanto i capitali.

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