Politica

Chiuso il fronte afghano ora Prodi balla su Israele

Laura Cesaretti

da Roma

«Così non si può andare avanti, dopo l’estate va pensata una nuova strategia per rafforzare questa maggioranza», dice Nicola Latorre, ds molto dalemiano e vicecapogruppo dell’Ulivo in Senato. All’altro capo del salone Garibaldi di Palazzo Madama la presidente dei senatori ds e dl, Anna Finocchiaro, ha il telefonino cellulare incollato all’orecchio da ore: «Mi sembra di essere un cane pastore, non faccio altro che contare le pecorelle del nostro gregge», sospira tra una chiamata e l’altra. È a lei che tocca verificare i conti dei senatori dell’Unione più rinforzi (senatori a vita ed esteri), voto dopo voto, fiducia dopo fiducia. E oggi si ricomincia: ieri notte si trattava di far passare il decreto Bersani-Visco, ora si guarda alle due fiducie sul decreto missioni, Afghanistan compreso.
C’è voluto un altro meeting con i nove pasdaran anti-afghani perché il ministro dei rapporti con il Parlamento Vannino Chiti incassasse finalmente la ragionevole certezza che i «dissidenti» si erano decisi a sciogliere la riserva e a mettere nero su bianco il giuramento di votare tutti la fiducia al governo, evitando di mandare a casa Prodi dopo neanche tre mesi a Palazzo Chigi. Fino all’ora di pranzo di ieri, il verde Mauro Bulgarelli ancora nicchiava, e a Chiti è toccato riprecipitarsi al Senato per un supplemento di trattativa. Nonchè concedere ai dissidenti anche «un mezzo impegno del governo», gongolano loro, «a non opporsi ai nostri ordini del giorno» iper-pacifisti. Ma Chiti non ha fatto neppure in tempo ad annunciare che la fiducia sarebbe stata messa (sull’articolo 2 e sul voto finale delle missioni) e ad arrivare a Montecitorio per tuffarsi nell’altro scontro che lacera la maggioranza, quello sull’indulto, è già le agenzie battevano una dichiarazione di guerra dell’inneffabile Malabarba (Prc): «La nostra non è una resa ma un ultimatum al governo: senza exit strategy non ci saranno altre fiducie». A Palazzo Chigi hanno fatto un salto sulla sedia e chiamato Chiti: «Ma non è che questi ci fanno uno scherzetto?». Chiti si è attaccato al telefono con lo stato maggiore di Rifondazione: «Ma che vuol dire questa storia dell’ultimatum?». Il capogruppo Russo Spena lo ha rassicurato: «La fiducia stavolta la votano, tranquilli».
Tutto a posto, dunque? Nemmeno per sogno: sul tormentato terreno della politica estera si sta per aprire un altro fronte di tensione nell’Unione, che può ripercuotersi anche sul voto dell’Afghanistan. E proprio per colpa di quella tanto celebrata «conferenza di Roma» che si apre oggi e che doveva costituire un grande successo d’immagine per Prodi e D’Alema.
«Se per caso ne uscisse l’idea di una missione militare sotto egida Nato per disarmare Hezbollah, come vuole la Rice, non ci stiamo», annuncia il sottosegretario verde Paolo Cento. «Nessuno può pensare di chiederci di partecipare a una missione di parte e non di pace», avverte, «e da D’Alema ci aspettiamo che alla Conferenza riproponga l’invio di una missione di interposizione anche a Gaza: solo così sarebbe una scelta equilibrata». Cento sa benissimo che «Condi» (così, confidenzialmente, D’Alema si riferisce al segretario di Stato Usa quando la cita ai colleghi di governo e di partito) non starebbe neanche a sentirlo se proponesse una cosa del genere. Ma anche da Rifondazione e dalla sinistra ds (per non parlare del Pdci, visto che Diliberto è amico personale dei capi di Hezbollah) arrivano segnali d’allarme. «Non siamo d'accordo con l'idea di una forza Nato» taglia corto Gennaro Migliore, capogruppo Prc alla Camera. «Se si tratta di una forza di disarmo di Hezbollah e basta non se ne parla». Rizzo va giù duro: «Mica penseranno di far partecipare l’Italia a una missione di polizia unilaterale a favore di Israele?».

E così sugli esiti del summit di Roma sale la tensione nel centrosinistra, e per il governo si prepara un nuovo tormentone, «e questa volta mica saranno solo i nove “dissidenti” a crear problemi: su una missione militare Nato per noi si aprirebbe il problema di restare nella maggioranza», confidano dal Prc.

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