Mai azzeccato un pronostico in vita sua. Da quando era un oscuro colonnello prodiano in fondo non è cambiato granché. LAbeceDario delle previsioni errate del segretario del Pd è lungo.
Il referendum, per dire. Franceschini è tra i più accesi «tafazzisti» del «sì». Del resto lui sì, che è un esperto di legge elettorale. Il 18 aprile del 1999, quando per un pugno di voti fallì il referendum sullabolizione della quota proporzionale per lattribuzione del 25% dei seggi, lallora vicesegretario del Ppi esultò: «La sconfitta dei sì non va interpretata come la volontà di fare nulla, anzi». Come dire: chissenefrega, modifichiamo comunque la legge a dispetto degli italiani. Un refrain che rischia di ripetersi anche in caso di fallimento del referendum per mancato quorum. Peccato che allora Franceschini fosse sostanzialmente sulla stessa linea di quelli che oggi dicono «no». «Difendiamo il bipolarismo - disse allora LapiDario - introduciamo piuttosto meccanismi che garantiscano stabilità ai governi». Quali? Ma ovviamente il premio di maggioranza alla coalizione vincente. Quello che oggi Franceschini vuole cancellare, era allora il suo pallino. «Proponiamo che alla coalizione vincente che ottiene almeno il 40% vada il 55% dei seggi, corrispondenti a 347 deputati», disse Franceschini nel 98. Una ipotesi che «serve a disinnescare la tentazione delle forze politiche di presentarsi da sole ed evitare un impossibile sistema bipartitico». Impossibile. Ci credeva talmente tanto che - udite, udite - si mise contro Walter Veltroni, quello che sarebbe diventato il suo «capo» qualche anno dopo, e contro il leader storico del centrosinistra, Romano Prodi. Il Professore è lulivista per eccellenza, quello della fusione fredda Ds-Margherita. A Franceschini, allora, di stare coi «compagni» non andava giù: «Il Ppi - disse nel marzo 99 - non è disponibile a confluire in un soggetto unico». E poi, aggiunse, «come si fa a mettere insieme i popolari con Di Pietro, Bertinotti e Boselli?». Già, come si fa. E Prodi, poi... I Democratici del Professore contendevano al «suo» Ppi la primogenitura centrista e Franceschini era il più acerrimo nemico di quel progetto. «Il nostro elettorato di riferimento - disse nel gennaio 99 - sa cosa scegliere tra un calderone (quello di Prodi e Di Pietro, ndr) e un partito come il nostro. Non ci sarà nemmeno un popolare a seguire Prodi. Accetto scommesse».
Comunque vada il referendum, per Franceschini sarà un insuccesso. Se vince il sì Berlusconi e il Pdl si avvieranno a governare indisturbati per decenni; se vince il no, il Porcellum resterà in piedi comè. Certo, in questo caso il segretario Pd potrebbe sempre «autocitarsi» e ripetere quanto disse alla vigilia del voto referendario di dieci anni fa: «Che senso ha chiamare 50 milioni di italiani al voto, spendere 700 miliardi di lire dei contribuenti per poi ricominciare tutto da capo, visto - sempre parole sue - che dalla vittoria del sì scaturirebbe un sistema irrazionale e bisognerà comunque rifare la legge elettorale?». E poi, lo aveva detto benissimo allora a Veltroni: «Non è con gli ultimatum che si cambia la legge elettorale. Anzi, il Parlamento che si affida al referendum è una vera e propria dichiarazione dimpotenza».
Ma lultimo ipse dixit è una perla: «Come si fa a chiedere un parere agli italiani su una domanda di 200 righe e un metro quadro di scheda?», si chiese allora.
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