Politica

Al ciak di «Gran Torino» la famiglia Agnelli si sfila dal mondo dell’auto

Ci sono dei momenti magici per cui un manager si trasforma in Mandrake. Riesce a fare di tutto e di più. C’è un’onda di consenso generalizzato. Un’aura che si trasmette con la velocità della luce. Le agenzie di stampa battono notizie altrimenti irrilevanti: ore 15.15, Sergio Marchionne in volo per Detroit. Le foto raccontano più di un articolo: la evidentemente rapida discesa da una Maserati per parlare con un principe bavarese che da qualche mese si occupa dell’economia tedesca. Il presidente della «fichizia globale» Obama che lo porta ad esempio.
Insomma, con Fiat e Marchionne stiamo vivendo una di quelle bolle manageriali che capitano raramente dalle nostre parti. L’ultima escalation fu forse quella di Alessandro Magno, inteso come Profumo, che conquistava le banche europee a suon di scalate. Se c’è una cosa che insegnano questi magic moments manageriali è che non sono figli solo di un tocco fortunato. Non si tratta di un double up di un pokerista con poche fiches sul tavolo. O il put imbucato da venti metri da un golfista dilettante. C’è un disegno.
In queste ore seguiamo l’evolversi della trattativa con Gm Europe (in buona sostanza Opel) con il passo della cronaca finanziaria e industriale. A poche ore dal colpaccio americano che ha portato alla conquista di Chrysler Marchionne ha detto che l’obiettivo è semplice: non più di cinque o sei produttori di auto resteranno al mondo. E siccome Fiat vuol resistere, si deve dar da fare. Benissimo. Ma cosa comporti questo per Fiat si perde di vista. La prima evidenza è che la famiglia Agnelli riuscirà con eleganza a uscire progressivamente dal settore auto. Si tratta ovviamente di un’esagerazione. Ma poi non così forte. Se la fusione con Opel dovesse andare in porto, il controllo di Torino sull’auto globale verrebbe molto ridimensionato. Oggi ha circa un terzo del capitale. Domani rischia (si fa per dire) di scendere intorno al 15%. E per gli Agnelli non è un male. Oggi la famiglia investe attraverso una società che si chiama Exor. Il 44% del valore di Exor dipende proprio dalle auto: un affare molto complesso, con margini ridotti e con la seccante prerogativa di aver cumulato perdite in dieci anni di un miliardo di euro, nonostante la cura di Marchionne degli ultimi cinque. E il mercato tutto ciò lo sa bene. Exor vale la metà degli attivi che ha in bilancio. In poche parole, la sua dipendenza dall’auto la penalizza, così come riduce le cedole che la finanziaria ogni anno deve staccare alla famiglia. Meno esposizione all’auto per gli Agnelli, anche se in prospettiva, è un buon risultato. Soprattutto se si può ottenere non annunciando una vendita, ma piuttosto una serie di acquisizioni.
Vi è un secondo aspetto collegato. Sempre nell’ipotesi di successo in Germania (o nel piano B, che dovrebbe riguardare la Francia), il ruolo di Marchionne cambierebbe. La Exor degli Agnelli avrebbe una quota tra il 10 e il 15% del nuovo grande gruppo automobilistico. Ma su livelli simili si posizionerebbe il Tesoro americano. Lo stesso che ha una quota importante di Chrysler e di Gm, attuale proprietaria di Opel. La nuova Fiat Auto diventerebbe una vera public company, con piccoli azionisti sparsi per il mondo e due azionisti di riferimento italo-americani. Insomma, Marchionne sarebbe ancora più svincolato dalla «famiglia» di quanto lo sia già oggi. Non proprio un manager senza padroni, ma poco ci manca. Sempre che per padrone non si intenda il mercato.
E arriviamo così al terzo pilastro del disegno di Marchionne. La concentrazione dei produttori di auto ha solo un senso economico. Oggi esiste una capacità produttiva di auto in eccesso: troppe fabbriche, troppi dipendenti, in troppi luoghi, per troppi marchi che non riescono a differenziarsi a sufficienza. La forza di un grande gruppo multinazionale a guida manageriale non può che essere quella di razionalizzare questo mercato. Il paradosso è che la politica (gli aiuti in Germania e Obama in America) sta armando l’arma per rivoluzionare un’industria ormai matura.

La forza di un manager che non risponda a un’azionista forte e a una politica nazionale è quella di operare tagli e ristrutturazioni che una società domestica non sarebbe in grado di fare.

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