Ciak in Marocco per raccontare l’Irak della Sgrena

«Fuoco amico», scritto e diretto da Enzo Monteleone, avrà come protagonista Sandra Ceccarelli

Cinzia Romani

da Roma

Una donna pallida, il capo coperto dal velo nero, recita una preghiera dal Corano. Intorno a lei, per nulla sottomessa dalla prigionia, i carcerieri dalla pelle scura la fissano da sotto la kefiah a scacchi rossi e bianchi, guidandola a dire. E non sembrano ostili, anzi appaiono incuriositi da quella strana occidentale restìa al pianto. Si tratta di Giuliana Sgrena, l’inviata del Manifesto un anno fa prigioniera dei mujaheddin in Irak e alla cui dolorosa vicenda ora s’ispira il film drammatico Fuoco amico, scritto e diretto da Enzo Monteleone. A produrre questo lavoro complesso (per i risvolti politici), basato su una storia totalmente vera e ispirato all’omonimo libro della Sgrena (edito da Feltrinelli, che ne ha venduto il copyright in America, Germania, Svezia, Finlandia, Grecia e Algeria), sarà Lionello Cerri, il fortunato produttore (con la sua Lumière) di Giuseppe Piccioni e di Silvio Soldini, registi non certo commerciali. «Abbiamo comprato i diritti del libro e alla sceneggiatura collaborerà Pier Scolari, il marito della Sgrena», spiega Cerri, che tuttavia si sente «più un esercente e un soggetto attivo della produzione cinematografica italiana che un produttore puro», afferma da Milano, dopo aver appena presentato, al cinema Anteo di sua proprietà, il nuovo film di Bellocchio.
All’impresa finanziaria parteciperanno pure Francia e Germania, mentre le riprese verranno effettuate tra la Tunisia e il Marocco, luoghi caldi e luminosi, dov’è più facile rievocare atmosfere e paesaggi da «triangolo sunnita».
«In Italia sono due-tre le attrici in grado d’interpretare la parte della giornalista, dalla cui terribile vicenda sono partito per stendere la mia sceneggiatura, per ora soltanto un’ameba, o, meglio, una crisalide da proteggere, nel lungo percorso che attende il mio film», dice (magari pensando a Sandra Ceccarelli) il regista del pregevole El Alamein, che quattro anni fa interessò, con uguale intensità, il pubblico e la critica. Anche lì, Monteleone aveva curato la sceneggiatura nei minimi particolari, perché dalla scrittura per il cinema (Alla rivoluzione sulla due cavalli, Liberate i pesci) ha cominciato questo quarantenne «molto colpito, come marito, come uomo e come cittadino italiano, da ciò che è successo a Giuliana Sgrena». E se «è importante raccontare al cinema questa storia, perché è esemplare di molte altre che fanno parte della nostra quotidianità», commenta l’autore, dichiarandosi «non particolarmente interessato a successi del tipo di Notte prima degli esami», altrettanto significativo sembra essere «narrare il rapporto fra due persone che fanno bene il loro mestiere e che arrivano a conoscersi per venti minuti soltanto». Il riferimento è alla breve, ma emozionante, conoscenza tra la Sgrena e l’agente del Sismi Nicola Calipari, morto sotto il «fuoco amico» americano per proteggere, con il proprio corpo, la giornalista, che dopo la sparatoria, sentì su di sé il corpo di lui appesantirsi. «È una sensazione terribile sentirsi morire una persona addosso, è come se morisse anche una parte di te», ha scritto l’inviata nel suo libro, giunto alla terza ristampa. «Racconteremo la figura di Nicola Calipari e della sua profonda umanità, che io, come credo molti italiani, mai avrei immaginato in un agente segreto», le fa eco Pier Scolari, non mancando di notare come «la parte più difficile da raccontare saranno i fatti avvenuti in Italia».
E mentre gli americani usano pompare i loro prodotti più istantanei con la dicitura «based on a totally true story» (basato su una storia totalmente vera), Monteleone non ha in mente né un «instant movie», né un documentario.

Del resto, prima di accettare l’incarico della supervisione, Giuliana Sgrena è stata chiara: «Non sarà un film d’azione, che ha come culmine la sparatoria, ma un approfondimento che riguarderà il rapporto tra una donna occidentale e degli uomini musulmani, la condizione di claustrofobia e di privazione della libertà, la sensazione di essere prigioniera delle mie convinzioni e, infine, il fuoco amico, inteso come quello americano, ma anche come il rapimento compiuto dagli iracheni, un popolo che io credevo di aiutare».

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